Uscire dalla trappola della produzione manifatturiera e coltivare imprese capaci di utilizzare le nuove tecnologie e le funzioni ad alto valore aggiunto per aggiornare il sistema economico bellunese. È la sfida dell’economia della conoscenza ed è anche la sfida che Giulio Buciuni – professore di economia al Trinity College di Dublino – ha accettato nel Bellunese. Da alcuni mesi coordina il progetto del Gal Prealpi e Dolomiti Bellunesi per la creazione di un ecosistema innovativo con l’obiettivo di far emergere e mettere in rete le potenzialità del territorio. Al tavolo siedono non a caso istituzioni (Provincia e Comuni), imprese, associazioni di categoria.
Lo abbiamo incontrato al termine della presentazione del suo ultimo saggio “Innovatori outsider – Nuovi modelli imprenditoriali per il capitalismo italiano”, (Il Mulino, 2024) per chiedergli in cosa consiste il lavoro di cui si sta occupando. «Questo lavoro consiste nel creare un ecosistema dell’innovazione a Belluno che possa creare valore attraverso la saldatura dei diversi asset che operano nel territorio, come multinazionali, piccole imprese e, da qualche anno a questa parte, istituti universitari».
Cosa serve al Bellunese per aggiornare il proprio modello di sviluppo?
«Uscire dalla trappola della manifattura, investire nelle funzioni ad alto valore aggiunto e formare una nuova generazione di imprenditori e di professionisti. Perché nell’economia della conoscenza la sola produzione è la fase che garantisce il minor valore aggiunto rispetto alle fasi precedenti e successive».
Quali sono le funzioni a valore aggiunto?
«Sono le attività intangibili pre e post produzione. Le fasi più importanti che precedono la produzione riguardano la ricerca e sviluppo, il design e la logistica di fornitura. Quelle successive sono la logistica di distribuzione, il marketing e i servizi post vendita».
Le imprese hanno trasferito fuori dal Bellunese la maggior parte dei servizi a valore aggiunto. È un processo di depauperamento inarrestabile?
«Il rischio esiste ed è inutile negarlo. Per arginare questo trend è necessario creare le condizioni affinché le grandi imprese restino. Su tutte, serve creare una nuova generazione di professionisti che riesca a supportare i processi innovativi delle imprese locali».
Ci sono situazioni dove questo tipo di operazioni ha avuto successo?
«A Gravina, in Puglia, si sta formando un ecosistema a ridosso di Macnil, azienda specializzata nella produzione di software per la localizzazione satellitare e la gestione di flotte di veicoli. L’impresa pugliese è oggi uno delle aziende di riferimento in questo specifico ambito tecnologico in Italia e, in parallelo, ha investito nella creazione di un ecosistema digitale nell’area dell’Alta Murgia. L’altro esempio è MegaRide, azienda fondata da un gruppo di docenti e ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Industriale della Federico II che elabora modelli di calcolo capaci di stimare l’aderenza e le performance degli pneumatici in modo non invasivo. MegaRide, che oggi lavora con le principali case da corsa di Formula 1, rally e Nascar in tutto il mondo, sta generando nuovi spin-off e nuova imprenditorialità. In entrambi i casi si tratta di ecosistemi in fieri, ma possiamo individuare la tendenza alla proliferazione di imprese che attraggono professionalità altamente qualificate e investimenti».
Nel saggio definisce una nuova classe di imprese che chiama “Plug-In”. Cosa significa, cosa sono queste imprese e perché sono importanti?
«Sono imprese di nuova generazione che si comportano come delle startup e per molti aspetti sono delle startup tecnologiche. Tuttavia, a differenza di molte startup digitali, che non si focalizzano su specifici verticali industriali, le imprese plug in operano a ridosso di alcune delle principali filiere industriali del Made in Italy. Cosi facendo, iniettano nuova conoscenza all’interno dei settori maturi dell’industria italiana, aggiornando la base di conoscenza e la tecnologia a disposizione delle imprese manifatturiere».
Le imprese plug-in oggetto della ricerca hanno quasi tutte Ebitda (utili prima di interessi, tasse, deprezzamenti e ammortamenti) a due cifre. Come possono trainare i settori o i distretti in cui operano e non rimanere dei campioni isolati?
«Questa è la grande sfida. È evidente che da sole non bastano. Serve moltiplicare la loro presenza e fare in modo che diventino il nuovo paradigma imprenditoriale del fare impresa in Italia».
Ci sono anche qui delle imprese plug-in? Quali sono gli asset che ne favoriranno la nascita o la crescita?
«Sicuramente ce ne sono. Alcune non sono note, altre forse non sanno di esserlo. Andrebbero mappate e studiate a fondo per capire come si comportano e quante sono. Per farle crescere poi servono competenze in materie STEM e finanza a supporto dell’imprenditorialità innovativa».
È possibile individuare le tendenze sull’occupazione di questi nuovi modelli di impresa? Aumenteranno o meno i lavoratori e che genere di lavoratori saranno?
«Le imprese plug in tendono ad assumere personale altamente qualificato. È chiaro che chi non sarà in possesso di titoli di studi avanzati rischierà di restare escluso da questo circuito».
Il tasso di laureati nel Bellunese è inferiore alla media veneta, a sua volta inferiore alla media italiana. Quali sono gli asset su cui può contare la provincia di Belluno?
«A Belluno si stanno affacciando le università. Si deve fare in modo che investano e rimangano nel territorio. È un’occasione irripetibile»