Anche chi si occupa spesso di vicende estreme, con gli strumenti dell’indagine sociale o psicosociale o del reportage, di fronte a quest’atroce storia di Piove di Sacco fatica. Credo che sia la storia più triste in cui imbattersi. Su cui esercitare la possibilità di un pensiero. Di una spiegazione, posto che ci sia.
Una giovane donna, Melissa, disconosciuta dalla famiglia italo-brasiliana residente in Puglia, a suo dire, perché prostituta o perché lavora in un mondo in cui la prostituzione è ben presente, gira di locale in locale, ballando e servendo e intrattenendo i clienti, sfruttata da chi sul suo corpo lucra e da chi ci vede un mero oggetto di svago. Resta incinta, sembra di un cliente. Testimoni dicono che il suo stato si vedeva benissimo, e tuttavia continua a lavorare, fino a un istante prima di dare alla luce una bambina, per sprofondarla un attimo dopo nell’acqua di un wc.
È solo a quel punto che questa bambina diventa “qualcuno”, per gli altri, e forse perfino per la madre stessa: ignorata finora, nel momento in cui muore appare a tutti. E diventa un problema. Avrebbe dovuto esserlo anche prima, ma un problema da gestire, da trasformare in una speranza, in un progetto nuovo di vita. Invece ha tutta l’aria di essere stata “rimossa”, fino alla fine, e chissà fino a quando lo sarebbe stata se qualcuno, ma troppo tardi, non avesse chiamato il Suem.
Così, ecco davanti a noi questa storia. Invece di scriverne, con dolore e fatica appunto, si vorrebbe restare a pensare. Soprattutto a lei, o solo a lei, la neonata senza nome. Verrebbe anche da trovarglielo, un nome. Chiamarla, che so, Martina. Il sobrio, elegante duomo di Piove è dedicato a san Martino di Tours. Lei, che non ha avuto patroni nella sua vita durata meno della vita dell’ephémera, la farfalla che vive solo un giorno, meriterebbe di portarlo, un nome, radicato in una terra, che pure niente le ha dato, e in una tradizione, che pure niente ha potuto, ma che forse d’ora in poi potrebbe conservarne, con il ricordo e il rimorso, la lezione tragica e radicale: non si può spezzare impunemente, con l’indifferenza intorno e la riduzione a stanco oggetto di sfruttamento, la connessione delle persone con la comunità circostante, con il senso stesso di umanità e i suoi principi basici. Sembra proprio il caso di Melissa.
Questo non diminuisce le sue responsabilità, che chi di dovere accerterà. Ma ne inserisce la vicenda nel microcosmo, in cui nessuno si è chiesto qualcosa di quella gravidanza, e nel percorso più lungo e nel contesto più ampio che ha preceduto l’atto finale e che lo inquadra.
Svuotare di umanità le relazioni, renderle mera funzione di attività economiche in cui integrare la reificazione dei corpi, ignorandone lo stato reale purché “producano”, deforma, nel tempo, la stessa percezione più intima di sé, non solo quella “sociale”.
Rigenerarle, queste relazioni, a partire dalla centralità della persona e del suo rapporto con il luogo, con le reti umane e sociali e istituzionali, significa creare contesti in cui a ogni difficoltà corrisponde un’opportunità e abituare chiunque a farsi carico, responsabilmente, della prima e a contare ragionevolmente sulla seconda, crescendo dentro - soprattutto se dentro di te, e nella comunità stessa, cresce una vita.