Nel 1995, quando la Banca Mondiale avvertì che «se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto l’acqua», la dichiarazione non fu presa troppo sul serio. Eppure, i conflitti tra popoli e nazioni legati all’accesso alle risorse idriche è aumentato esponenzialmente nel nuovo millennio, e questa tendenza – dicono i dati - è destinato a proseguire. Tra il 2000 e il 2009, per esempio, sono stati censiti 94 conflitti, mentre tra il 2010 e il 2018 si è arrivati addirittura a quota 263. A rivelarlo è il rapporto dell’Unesco The United Nations world water development report 2019: leaving no one behind, la cui disamina non lascia dubb.
Quali le situazioni più a rischio? Il corso del Nilo, riserva idrica di molti Paesi africani e fonte di eterna tensione tra Egitto, Etiopia e Sudan; il fiume Indo in Pakistan, i cui affluenti nascono nel Subcontinente e creano scontri continui per l’approvvigionamento; così anche per il bacino fluviale del Giordano, da cui dipende la vita di più di sette milioni di persone e la cui area intercetta i fabbisogni della Giordania, che ne controlla il 40 per cento, la Siria (37), Israele (10), Palestina (9) e Libano (4 per cento). Infine, vanno citati il Tigri e l’Eufrate, che bagnano Siria e Iraq ma il cui controllo da parte della Turchia è imprescindibile per Ankara; e il Mekong in Asia, la «madre delle acque», fonte di cibo nonché mezzo di trasporto e commerci per 60 milioni di persone, condiviso da Cina, Laos, Birmania, Cambogia e Vietnam.
Quelli appena citati sono alcuni dei teatri futuri delle guerre per l’acqua, focolai che presto potrebbero sfociare in veri e propri conflitti armati. A cominciare proprio dal Nilo, dove la questione si fa anche geopolitica, seguendo l’adagio «chi controlla il Nilo, controlla il potere». Una certezza per i popoli che vivono su terre un tempo rigogliose, ma oggi flagellate dalle prolungate stagioni di siccità che rendono il cambiamento climatico il primo vero nemico da combattere nonché una variabile funesta. Il Corno d’Africa, quindi decine di milioni di persone, da anni affronta lunghi periodi di assenza di precipitazioni ad alluvioni improvvise quanto devastanti.
Il secondo nemico, invece, sono proprio uomini e governi che si trovano a dover gestire un’emergenza che prelude a uno scontro annunciato: tutto inizia quando l’Etiopia inizia a costruire una grande diga, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, a più di duemila chilometri verso Sud dall’Egitto per incanalare le acque sorgive del ramo orientale del Nilo, il cosiddetto Nilo Azzurro, che porta a valle la maggior parte dell’acqua e del limo fertile. Da allora, il Cairo è in allarme, preoccupato e consapevole del rischio concreto di vedere il proprio afflusso d’acqua significativamente ridotto, visto che la diga costruita in Etiopia è una mastodontica opera di altissima ingegneria, che servirà a imprigionare un bacino idrico di decine di miliardi di metri cubi, che dunque non raggiungeranno mai - se non razionati - le terre egiziane. A firmare l’opera per il cliente Ethiopian Electric Power è un’azienda italiana, l’ex Salini Impregilo oggi WeBuild. Sebbene in patria non riesca a realizzare progetti funzionali come il Ponte sullo Stretto di Messina per veti e controveti, all’estero WeBuild realizza grandissimi progetti: quello sul Nilo è infatti tutto italiano e il suo valore sarebbe pari a circa quattro miliardi (ma la cifra ufficiale non è nota). Così vale anche per Trevi, l’azienda italiana che si è aggiudicata la manutenzione della diga di Mosul, in Iraq, dove scorre il fiume Tigri: è la quarta più grande di tutto il Medio Oriente ed era stata danneggiata durante la guerra con cui il Califfato islamico voleva soggiogare porzioni significative di Siria e Iraq.
Tornando alla disputa per le acque del Nilo, in principio fu l’ultimo imperatore etiope, Haile Selassie, a prospettare per primo la costruzione di una diga sul Nilo Azzurro. Si era nel 1958 ma solo ad aprile 2011 è a stata posata la prima pietra. Da allora, Egitto e Sudan lavorano per boicottare la creazione dell’immensa riserva idrica che genererà così tanta energia elettrica per l’Etiopia da poter essere poi rivenduta. «Già lo scorso anno, il governo etiope aveva annunciato il completo riempimento del bacino dell’enorme diga che, da progetto, dovrebbe essere consegnata al governo etiope entro pochi anni, a lavori conclusi. E questo nonostante Egitto e Sudan avessero chiesto in più occasioni all’Etiopia di non completare il riempimento del bacino fino a quando non avessero trovato un accordo preciso sul suo funzionamento. Ora, a cose fatte, tutto si fa più difficile» commenta Rocco Bellantone, autore di saggi e africanista per Nigrizia, rivista italiana dei missionari comboniani dedicata al continente africano. «Inoltre, pesa sul futuro dei rapporti tra queste nazioni, soprattutto tra Egitto ed Etiopia, la rapida crescita della popolazione egiziana, che aumenta di due milioni l’anno e che, insieme ai cambiamenti climatici che non possono governare, sarà fonte di carenze idriche nella regione entro il 2025, considerato anche che al Sisi ha appena costruito una megalopoli in mezzo al deserto». Il riferimento è alla nuova capitale amministrativa del Paese, che intenderebbe sfruttare intensivamente le capacità del Nilo.
Prosegue Bellantone: «A rendere la situazione più complicata, per non dire esplosiva, ci sono anche le tensioni tra Sudan e Sud Sudan, a cui dall’aprile 2023 si è sommata la guerra civile scoppiata per la presa del potere a Khartoum. Molti conflitti, infatti, nascono in aree già problematiche, dove questioni come l’approvvigionamento delle risorse si sommano a fattori geopolitici. Così in Darfur, regione del Sudan che si sviluppa tra il deserto del Sahara a nord e la più fertile savana, a sud. Da anni si ha una progressiva diminuzione delle precipitazioni che, a causa dell’avanzata del deserto, costringe milioni di persone a fuggire dalla siccità. Il che amplifica le crisi umanitarie africane, anche senza bisogno di combattere una guerra. Perché “guerra” qui significa è anzitutto sopravvivere alla giornata». Ma poi c’è il conflitto quello vero, a cui l’Egitto sembra volersi preparare: anche per questo lo scorso 14 agosto al Cairo il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il suo omologo somalo, Hassan Sheikh Mohamud, hanno dato il loro assenso alla firma di un protocollo bilaterale di cooperazione in materia di difesa, per far capire ad Addis Abeba che non si scherza col fuoco, ma nemmeno con l’acqua. L’Egitto, infatti, intende creare un cordone sanitario di alleanze per isolare l’Etiopia e militarizzare i suoi confini: in questo senso, sostiene una missione di mantenimento della pace dell’Unione Africana in Somalia, con il dispiegamento di circa diecimila soldati schierati lungo la linea di confine con l’Etiopia e il Somaliland; quest’ultima è la regione separatista autoproclamatasi indipendente dalla Somalia con l’aiuto etiope. Così, mentre Mogadiscio è in rotta con Addis Abeba perché favorisce i separatisti somali, il Cairo dopo gli accordi con il Sudan, sta creando un nuovo asse con la Somalia e anche con l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, che da tradizione alimenta la storica rivalità tra le due nazioni del Corno d’Africa.
Dove tutto ciò possa condurre non è chiaro, ma le tensioni nella regione sono già sfociate in pesanti minacce di sabotaggio e addirittura di demolizione della «diga della discordia» africana. Vicende simile sono già avvenute in Iraq, quando lo Stato Islamico conquistò la diga di Mosul nell’agosto 2014, minacciando di farla esplodere per riversare un muro d’acqua sopra Mosul e Baghdad, con centinaia di migliaia di morti e danni incalcolabili.