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Che la si pensi in un modo o nell’altro sul primato negativo della Serie A 2024-2025, non si può che convenire su una serie di certezze, che derivano da altrettanti dati incontestabili. Il primo è che l’Italia, ahinoi, non rappresenta più un punto di riferimento per gli appassionati di calcio nel mondo: i teenager preferiscono sempre di più volgere lo sguardo verso altri lidi, che poi sono la Premier league inglese e la Liga spagnola. Venti anni fa questi ragazzi andavano in giro con la maglietta della Juve, del Milan, del Barcellona, accanto a quelle del Real Madrid e del Manchester United. Oggi trovare un tifoso extraeuropeo - che non sia d’origine italiana - di una grande della Serie A è un’impresa sempre più difficile, come d’altra parte è difficile dargli torto, se è vero che molti di loro fanno parte di una generazione che non ha ricordi netti di una partita dell’Italia a un mondiale di calcio.
Per questo, dopo la figuraccia di Euro 2024, il sentimento che sta pervadendo appassionati e addetti ai lavori è che ci si trovi all’anno zero del calcio italiano. Forse perché la differenza, rispetto al passato, è che si è rafforzata l’impressione che il gap con lo sviluppo del movimento calcistico degli altri grandi Paesi europei stia diventando incolmabile. Il livello tecnico medio, nell’ultimo decennio, è crollato, eppure il calcio è ancora lo sport più praticato tra i ragazzini. Questo significa che abbiamo ancora uno dei più grandi bacini cui attingere. Il problema è che, mentre una volta si poteva mostrare il proprio talento per strada o in oratorio e fare un provino per un club professionistico, oggi la filiera si è allungata sensibilmente e c’è bisogno di infrastrutture. Il mantenimento di queste è affidato alle società dilettantistiche e alle scuole calcio, che possono contare solo sulle proprie risorse o devono sperare di affiliarsi a un grande club, diventando riserva per il vivaio.
Ecco il primo tasto dolente, nell’autunno più freddo del calcio italiano: a dispetto del «caso Atalanta», esempio tangibile che la strada per uscire dalla crisi sia puntare sui giovani talenti italiani, la Serie A è il campionato europeo con meno giocatori «autoctoni» assieme a quello inglese. I giocatori stranieri, secondo le ultime rilevazioni, sono circa il 65 per cento, con casi limite come l’Udinese, che è arrivato ad avere 30 giocatori stranieri su una rosa di 35. In Inghilterra la scarsa percentuale di britannici è compensata dal fatto che la presenza dei calciatori più famosi conferisce alla Premier league lo status di lega più ricca del pianeta, con conseguente vantaggio per tutte le società, in base alla ripartizione degli introiti televisivi, pari a dieci volte quelli che ottengono le società italiane.
L’accesso dei giovani calciatori italiani, invece, è «chiuso» non da Haaland o da Rodri, ma da giocatori spesso mediocri, presi per completare le rose salvando l’esigenza della sostenibilità economica. Quindi colonizzazione delle rose da parte degli stranieri, senza alcun vantaggio in termini di prestigio e di ritorno economico. Eppure non esiste solo l’esempio di un piccolo club come l’Atalanta che dovrebbe far aprire gli occhi ai nostri dirigenti: quasi tutti i club più prestigiosi del mondo puntano tantissimo sulle squadre giovanili, come insegnano le ormai leggendaria «canteras» del Barcellona e del Real Madrid, che assieme a quella del Benfica hanno fatto incassare ai rispettivi club centinaia di milioni dalle vendite dei giovani più promettenti. In questa prospettiva, un altro male che sta attanagliando la pedata italica è la condizione di potere alla quale sono giunti i procuratori, veri «dominus» del calciomercato (a proposito: davvero bisogna chiudere le compravendite quando si sono già svolte tre giornate di campionato, con teatrini e tira-e-molla?). I procuratori, appunto: figure ormai a metà tra il tycoon e l’influencer. La svolta negli ultimi anni l’hanno impressa nomi come il prematuramente scomparso e «onnipotente» Mino Raiola, e in dieci anni la cifra spesa dai club per le commissioni agli agenti è raddoppiata, arrivando a sfiorare ormai i 250 milioni a stagione. Il che, per una lega che questa cifra fa fatica a raggiungerla solo con i diritti tv, rappresenta un problema enorme.
Per tappare le falle di un prodotto che non rende più come una volta, i broadcaster che trasmettono le partite hanno aumentato le tariffe, arrivando quest’anno a far sborsare circa 70 euro a chi volesse seguire tutti i match del campionato. Dedicandosi quasi esclusivamente a tale attività, poiché - sempre da quest’anno - lo «spezzatino» delle partite è arrivato alla sua massima espressione, con match previsti praticamente ogni giorno della settimana. Ma l’elemento che attualmente marca in modo più palese e se vogliamo drammatico l’arretratezza del calcio italiano rispetto alla grande maggioranza d’Europa, è la condizione degli stadi. Il nostro Paese «vanta» l’età media più alta (oltre 60 anni) e la percentuale più alta di impianti di proprietà pubblica (oltre il 70 per cento): dati impensabili non solo per Germania e Regno Unito, ma anche per nazioni economicamente più arretrate della nostra come Portogallo e Grecia. Costruire un nuovo stadio in Italia, come insegnano le vicende di Roma e Milano, è un’impresa titanica a causa della burocrazia: basti pensare che nella Capitale risulta un problema far rientrare il Comune in possesso delle aree (di sua proprietà) individuate per la costruzione dello stadio della As Roma, in virtù di ricorsi al Tar fatti da occupanti illegittimi che reclamano l’usucapione e in questo possono anche contare su sponde politiche in Consiglio.
Poi ci sono i conti economici delle singole società, e anche da questo punto di vista la situazione è fortemente critica: la gran parte della Serie A annega nei debiti, con poche eccezioni, tra le quali spicca la «solita» Atalanta. Nelle ultime rilevazioni, l’indebitamento netto degli otto club più importanti era sopra la soglia siderale dei tre miliardi di euro. Anche in tal caso, una parte di questi problemi ha investito i tifosi, perché i prezzi dei biglietti per il «match-day» sono aumentati sensibilmente, rinfocolando le proteste già levatesi negli ultimi anni da alcuni gruppi di ultrà. A livello politico, i referenti del calcio professionistico tra i legislatori (per fare due nomi: il presidente della Lazio Claudio Lotito e l’ad del Monza Adriano Galliani) si sono dovuti confrontare con scelte politiche che, a fronte di una situazione economica martoriata dall’inflazione, dal post-Covid e dalla crisi energetica, hanno preferito non rinnovare o non introdurre aiuti economici diretti e indiretti al calcio. La vittima più illustre di queste scelte è stata la parte calcistica del «decreto crescita» del governo Conte 1, abolito anche perché, prevedendo sgravi per calciatori o tecnici che provenivano da campionati stranieri, induceva i dirigenti a rimpinguare le rose di calciatori non italiani.