Raffaele Fitto sarà il candidato italiano per la Commissione Ue. Per Giorgia Meloni è l’unica carta che si poteva giocare, quella che promette il maggior beneficio e i minori contraccolpi nella partita Ursula von der Leyen, match che ha tutta l’aria di poter finire meno peggio di quello che si crede e meglio di quello che il governo merita per come l’ha gestita.
Lo spirito dell’Europa è questo. Alla fine, la vocazione è far sì che tutti possano, se lo vogliono, dire di aver vinto. Perché solo così si può andare avanti.
Fitto, dunque. È un politico figlio di un politico, uno che a vent’anni era consigliere regionale in Puglia. È nato a Maglie come l’ex premier Aldo Moro. È sbocciato con la Dc, è cresciuto a Forza Italia, infine ha scelto Giorgia Meloni. È stato eurodeputato in tre legislature, presidente della sua Regione dal 2000 al 2005, ministro dal 2008 al 2011.
Da due anni è il mazziere del Pnrr, stimato dai suoi, educatamente criticato dagli altri. Parla poco, sfugge alle interviste. Soprattutto sa quando deve dire qualcosa e come. È diplomatico e lavoratore. Si può fare.
Ha doti di equilibrista. Vive in un governo in cui la premier era per l’uscita dall’euro (quando si trovava all’opposizione) e nel quale c’è un vicepremier che ha scelto per Strasburgo un generale determinato a “sabotare l’Europa”. A Bruxelles lo conoscono, nel Partito Popolare lo stimano.
Il suo inglese non è oxfordiano, ma chi lo conosce assicura che sta studiando. Nell’assemblea comunitaria si è occupato di dossier tecnici, dalla contabilità all’energia. È sempre stato prudente. A differenza di molti compagni di strada, non ha mai invitato a bruciare la bandiera a dodici stelle, né si è esibito in battute spiacevole sui diritti, tema sempre caro alla maggioranza dei deputati Ue.
Questa è la seconda arma neanche tanto segreta di Fitto. Una volta diffusa la lista dei commissari (11-12 settembre), partiranno le audizioni all’Europarlamento. Sebbene manifestamente democristiano, il concorrente italiano veste la casacca conservatrice dell’Ecr e può ritenere garantita l’ostilità di socialisti e liberali. Per passare ha bisogno dei popolari, cosa di cui si è parlato ieri col leader Ppe, Manfred Weber. Al netto di colpi di sorprese, il profilo di Don Raffaele è l’unico a poter sperare di varcare le forche caudine dell’eurassemblea.
La sua esperienza chiama Coesione e Bilancio. Il governo rischia per aver giocato contro Von der Leyen e aver dichiarato apertamente i suoi obiettivi – portafoglio economico, vicepresidenza esecutiva e niente di meno rispetto a Francia, Germania e Spagna. Tuttavia, chi ascolta gli umori di Ursula non registra aperta volontà di penalizzare l’Italia.
Incassata la conferma, perché fare dispetti gratuiti? E perché litigare con Meloni in un contesto politico di rapida evoluzione, con Macron debole, Scholz zoppo e la Spagna in impasse?
È vero che molti ambiscono ai dossier economici, eppure l’Italia è l’Italia, giusto o sbagliato, grande paese fondatore. Questo, ai piani alti della Commissione, lo sanno. Così, per entrare nel mondo in cui si fanno scommesse e non previsioni, è probabile che Meloni ottenga qualcosa di simile a quello che chiede.
Coesione più altro, Pnrr o Bilancio che sia. La vicepresidenza potrebbe arrivare, soprattutto dopo che il ministro degli Esteri Tajani, dopo aver incontrato la tedesca di Palazzo Berlaymont, ha detto che la cosa è possibile: è il segno che sa qualcosa che non sappiamo oppure che ha commesso un errore di comunicazione esponendosi troppo.
L’alternativa è che, con sano opportunismo, Von der Leyen potrebbe decidere di non concedere la qualifica alle grandi capitali, il che risolverebbe mezzo problema con Roma. I giochi sono appena entrati nel vivo, ma l’impressione è ci sarà un accomodamento. Il dialogo con Bruxelles, nonostante tutto, è sui binari giusti. Per quanto se ne sa, è costruttivo. E Fitto.