L’attività trapiantologica è uno dei fiori all’occhiello della sanità padovana, per volumi ma anche per qualità degli interventi, tanto da classificarsi fra i primi posti fra i centri italiani.
E in particolare, se si tratta di trapianti di polmone, quello dell’Azienda Ospedale-Università di Padova è al primo posto della classifica forte di un’attrattività tale che oltre la metà dei pazienti arriva da fuori Veneto.
A tenere salde le redini di questa eccellenza è il professor Federico Rea, direttore dell’Unità di Chirurgia Toracica e a capo del Dipartimento chirurgico del Policlinico.
Nel 2023 con 54 trapianti di polmone Padova - unico centro del Triveneto - si è confermata al primo posto in Italia, un primato che conta di replicare anche quest’anno, con già 28 interventi nei primi sette mesi.
Sono principalmente due le malattie che portano alla necessità del trapianto di polmone: «Oggi il trapianto si rende necessario prevalentemente su pazienti affetti da fibrosi polmonare idiopatica» rileva il professor Rea, «anche per il fatto che vengono effettuate molte più diagnosi. Sono invece diminuiti i pazienti affetti da fibrosi cistica, perché si sono evolute delle terapie geniche che bloccano l’evoluzione della malattia».
L’incremento di pazienti affetti da fibrosi polmonare e la parallela diminuzione di quelli affetti da fibrosi cistica ha comportato un cambio del loro identikit: «La fibrosi cistica, che è una malattia genetica, si manifesta già nei bambini e quindi il paziente che arriva al trapianto è più giovane. In caso invece di fibrosi polmonare il paziente è più grande, quindi si è spostata in avanti l’età dei pazienti. L’età media va dai 55 ai 60 anni, ma se prima si arrivava al massimo a pazienti tra i 60 e i 65 oggi trapiantiamo anche fino a 65 e 70 anni».
Dopo il trapianto il paziente torna a una vita normale: «Devo dire che per molti è un vero miglioramento della qualità di vita» osserva Rea, «chi arriva al trapianto molto spesso vive attaccato all’ossigeno. Dopo l’intervento si ha una vita piena, sul piano del lavoro, dello sport, della socialità».
Con più del 50% di pazienti che arriva da fuori Veneto la collaborazione con altri ospedali diventa strategica: «Abbiamo sviluppato partnership sul modello hub e spoke per esempio con il Monaldi di Napoli con confronto settimanale fra i nostri e i loro professionisti che seguono i pazienti della fase pre e post trapianto».
È già da qualche anno che il centro diretto dal professor Rea è al primo posto in Italia per numero di trapianti di polmone: «Al di là dei numeri» rileva il chirurgo, «è importante il fatto che da quando abbiamo iniziato, l’attività trapiantologica ha registrato un incremento costante».
E qui i numeri dettano legge: 21 trapianti nel 2020, 25 nel 2021, un balzo a 41 nel 2022 fino ai 54 dell’anno scorso.
«Nei primi sette mesi del 2024 siano a 28 interventi quindi è probabile che ci attesteremo sui numeri dell’anno scorso, ma il conteggio andrà fatto ovviamente alla fine».
Numeri ma non solo. «Per garantire questa attività ultra specialistica» appunta il professore, «è necessario avere professionisti preparati. È un lavoro complesso, che richiede grande esperienza e competenza e Padova può rivendicare la capacità di saper attrarre giovani medici chirurghi: la nostra Unità oggi può contare su tre équipe complete - con chirurghi under 50 - in grado di affrontare il trapianto così come di recarsi dove si rendono disponibili i polmoni per la valutazione e la preparazione dell’organo. Non è un risultato banale se pensiamo che un centro di Roma e uno di Pavia hanno addirittura cessato questa attività per mancanza di professionisti».
Ci sono due elementi che rendono il trapianto di polmone quello più a rischio: «Dal punto di vista della tecnica la gestione dell’intervento è standardizzata con valori di mortalità vicini allo zero» rileva il professor Rea, «ma abbiamo due grandi svantaggi. Il polmone che viene prelevato per essere trapiantato è molto rovinato dalla gestione del donatore, in morte cerebrale o cardiaca. Si tratta di pazienti che sono intubati e quindi con una sofferenza polmonare. Poi, una volta trapiantato, il polmone è l’unico organo che non è “chiuso” nell’organismo ma è a contatto con l’aria esterna. E quindi si pone il problema delle infezioni. Il polmone è estremamente immunogenico, ha la tendenza ad attivare molto il sistema di difesa. Il paziente viene sottoposto a molta immunosoppressione e quindi è a fortissimo rischio di infezioni. Infine» aggiunge il professore, «c’è anche un’alta percentuale di rigetto».
Il tema delle infezioni rappresenta la minaccia più seria per il futuro dei trapianti di polmone, nella misura in cui sta aumentando il problema della resistenza agli antibiotici: «È un ambito in cui si dovranno concentrare ricerche e nuove procedure» conferma Rea, «in particolare protocolli di immunosoppressione individualizzati per evitare le complicanze infettive e lo stesso rigetto».
Un aiuto arriva anche dalla tecnologia: «Le macchine per la perfusione dove viene inserito il polmone» conferma il professore, «aiutano a migliorarne la qualità e si sta cercando di capire anche come indurre una migliore tolleranza all’attecchimento».