Il pianto a dirotto abbracciato alla moglie e ai figli, la bandiera stretta in mano, la tensione di una vita che si scioglie. Novak Djokovic si è preso in due tie-break mostruosi (7-6 7-6) contro Carlos Alcaraz l’oro alle Olimpiadi, l’ultimo pezzo di immortalità che gli mancava, e ora ha vinto davvero tutto: 24 Slam - fra i quali 7 Wimbledon, e comunque tutti almeno tre volte - tutti e 9 i Masters 1000 almeno due volte (40 titoli complessivamente) la Coppa Davis, le Atp finals (7 volte). Nessuno è stato più a lungo numero 1, 428 settimane, per tanti anni (13) e per tante volte a fine anno (8), nessuno ha battuto più top 10 (257). Nessuno dei suoi grandi avversari, compresi Nadal e Federer, ha un record positivo contro di lui, il Djoker infinito, che a 37 anni sbanca anche Olimpia, completando il Golden Slam (i 4 Slam più l’oro olimpico) che era già riuscito in carriera a Agassi, Nadal e a Serena Williams, e nello stesso anno (1988) a Steffi Graf, e adesso può dirlo urlando con tutta la voce che ha in gola: il Più Forte sono io.
I confronti con il passato remoto sono inutili e impossibili; quelli con l’era Open, almeno da quando gli Slam sono diventati così importanti e il tennis è tornato a cinque cerchi, hanno invece un senso e da oggi anche un padrone. Questo trionfo l’ha sognato per tutta la vita e quest’anno lo ha pianificato, studiato, desiderato con tutto quanto aveva in corpo e nella mente. L’infortunio al ginocchio subito proprio qui, a Parigi durante il Roland Garros, ha rischiato di compromettere tutto, ma Nole l’indistruttibile è riuscito a rimettersi in piedi in meno di un mese, a Wimbledon, fuori condizione, si è arreso solo ad Alcaraz. Oggi se l’è ritrovato davanti, e stavolta non poteva perdere. Troppe motivazioni, troppa voglia di dimostrare di essere non ancora il numero uno, ma un numero unico, irripetibile, ineguagliabile. Basterebbero i due diritti incrociati stellari che ha piazzato nell’ultimo tie-break per dimostrarlo, le gemme di una partita durata quasi tre ore, due soli set che però sono sembrati cinque.
Nole è sempre stato l’uomo contro, l’avversario giurato, a volte dei luoghi comuni, altre del buonsenso, comunque mai banale, mai scontato, mai pacificato. A lungo è stato il terzo incomodo - più odiato che amato - fra Federer e Nadal, oggi bisogna salutarlo come il campione immenso che perché ha dimostrato per l’ennesima volta di saper battere non solo i suoi coetanei, non solo gli avversari della generazione seguente alla sua, ma anche i suoi ‘nipotini’, come il 22enne Musetti in semifinale e il 21 enne Alcaraz in finale. E che nipotini. Sul gradino più alto del podio, finalmente libero, dopo che a mettergli l’oro al collo era stato il Presidente del Cio in persona, Thomas Bach, non ha più pianto, ma ha sorriso e cantato guardando la bandiera della Serbia che saliva sul pennone. Chapeau, campione. Te la sei meritata questa medaglia che vale una vita.