4 agosto 1974: alla stazione Tiburtina di Roma è tutto pronto per far partire l’Italicus, il treno espresso 1486 delle ore 20.42. Il ponentino romano, la brezza che spira dal mare, rallegra gli animi alla sera, si sta bene e nessuno fa caso a quei 7 minuti di ritardo con cui il convoglio inizia la traversata della bella penisola. Deve arrivare a Monaco di Baviera ma, di tappa in tappa, c’è sempre qualcosa che rallenta, tanto che quando riparte da Bologna il ritardo è già di 26 minuti. Una mezz’oretta. Un lasso di tempo insignificante nell’economia di un lungo viaggio, uno spazio di nessuna importanza nell’arco di una vita, ma maledettamente essenziale se sta per scoppiare l’inferno.
Attorno all’una del mattino, all’uscita dalla ‘galleria degli Appennini’, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro, un ordigno ad alto potenziale, composto da tritolo e termite, esplode nella quinta vettura. Se non ci fosse stato quel pigro rallentamento ad accumulare minuti in più, il botto sarebbe avvenuto nel tunnel e l’effetto deflagrante sarebbe stato potenziato. Tante vite salvate, ma la strage fu crudele: all’esplosione seguì un incendio di vaste proporzioni. Dodici morti ammazzati, quaranta feriti, nessun colpevole.
La strage dell’Italicus cinquant’anni dopo ci racconta sofferenze, impunità e una geografia del potere che ha scavallato la caduta del muro di Berlino senza cambiare granché. L’attentato fu rivendicato con un volantino nel quale si leggeva: “Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti”: erano i neofascisti di Ordine nuovo, sigla declinata in Ordine nero dopo il sacrosanto scioglimento dell’organizzazione voluto da Paolo Emilio Taviani, un uomo della Resistenza nel quale si sommano tutte le contraddizioni del nostro dopoguerra: padre di Gladio, antifascista, fu lui a suonare l’allarme per i troppi fascisti finiti dentro le istituzioni.
L’ istruttoria giudiziaria è stata lunga e faticosa, boicottata da depistaggi e da uno dei più clamorosi tra i segreti di Stato a tutela di una agente del Sid, l’indimenticata Claudia Ajello, legata agli ambienti dell’estremismo neofascista ellenico (pochi giorni prima della strage, il 24 luglio, era caduto il regime dei colonnelli che tanto aveva sostenuto e protetto i terroristi italiani). Come in tutte le altre stragi, i depistaggi hanno un sicuro effetto ritardante sulla giustizia; anche se vengono smascherati non troppo in là dai fatti, giocano sulla funzione e lo smembramento del quadri d’insieme: la dilazione temporale qui è mortale per la giustizia. La seconda istruttoria (chiusa nel ’94) confermando l’assoluzione per gli esecutori offre un quadro articolato e sconcertante delle coperture istituzionali e della natura dell’atto stragista, nel quale emerge come dominus la figura di Licio Gelli, ispiratore e finanziatore della cellula toscana di Ordine Nuovo, braccio armato della strage.
Già nella relazione conclusiva della Commissione Anselmi (1984) è scritto tutto quel che serve per comprendere il piano criminale: “la Loggia P2 è gravemente coinvolta nella strage dell’ltalicus e può ritenersene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale”. Tina Anselmi, che si era battuta come una leonessa pur mantenendo sempre l’andamento lento dei veneti, si chiedeva smarrita come fosse possibile, dopo la relazione della sua commissione d’inchiesta, che non si procedesse a inchiodare Licio Gelli: oggi sappiamo che il Venerabile Gran Maestro della Massoneria non è mai stato detronizzato e la sua forza è durata a lungo.
Durante quell’estate, e per tutto il biennio 73-74, una alleanza reazionaria tentò una spallata violenta al nostro sistema democratico attraverso due stragi – Italicus e Piazza della Loggia – e violenze di piazza orchestrate dal Movimento sociale di Giorgio Almirante: solo nel biennio dei primi anni ’90 si sarebbe poi ripetuta quella concentrazione di fuoco che dava agli eventi, gli uni e gli altri, una valenza che travalica l’interesse immediato o anche di medio periodo di Cosa Nostra, o del gruppo ordinovista toscano. È sempre Licio Gelli protagonista, anche dopo. È lì l’attualità di quel massacro, in un potere criminale divenuto segmento del potere legittimo: una storia che va ancora scritta.
Anche un particolare della vicenda dell’Italicus ancora rimane in sospeso: infatti, su quel treno pare fosse salito anche il ministro degli esteri Aldo Moro, secondo la testimonianza di sua figlia Maria Fida: avrebbe dovuto raggiungere la sua famiglia che trascorreva le vacanze in Trentino ma, un attimo prima della partenza, sarebbero arrivati due funzionari del ministero per riportarlo subito alla Farnesina: c’erano da firmare carte importanti, non si poteva rinviare. Fida, che è scomparsa lo scorso febbraio, disse poi che Moro preferì non denunciare la circostanza che rimane sospesa nell’aria, mai smentita né confermata in alcun’altra sede.
Possiamo dunque solo immaginare quel binario nel crepuscolo della sera, la brezza dal mare e il ministro degli Esteri che scende di gran lena per tornare alle sue carte. Un piccolo cambio di programma che non modificò il programma del neofascista, che azionò l’ordigno esattamente nella carrozza di prima classe numero 5, durante la sosta alla stazione di Firenze. Se fosse andata così, quel piccolo ritardo accumulato avrebbe salvato molte vite, posticipando di poco la fine di quella di Aldo Moro.
L'articolo Italicus: dodici morti ammazzati, quaranta feriti, nessun colpevole. Neanche dopo 50 anni proviene da Il Fatto Quotidiano.