di Sofia Basso, research campaigner Pace e Disarmo di Greenpeace Italia
Quanto conta per Eni la tutela del clima, dell’ambiente, della pace e dei diritti? Per rispondere a questa domanda, Greenpeace Italia ha mappato le attività dell’azienda, seguendo criteri ben definiti e basandosi, quindi, esclusivamente su dati e fatti.
Per valutare l’interesse verso le questioni climatiche del Cane a sei zampe, abbiamo analizzato le date dei progetti in cui l’azienda è operatore o azionista, scoprendo che 552 dei 767 progetti fossili partecipati da Eni (pari al 72%) hanno iniziato – o inizieranno – l’attività di estrazione dopo l’Accordo di Parigi del 2015 (fonte: Rystad Energy; estrazione dati novembre 2023). Di questi 552 progetti, 96 hanno acquisito la licenza dopo il 2015, anno in cui gli Stati firmatari si sono impegnati a “proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C”. Ventisette di queste licenze sono state addirittura acquisite dopo che l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha raccomandato di non fare nuovi investimenti nelle fonti fossili (2021).
Le emissioni in quota Eni dei 552 progetti post accordo di Parigi – calcolate fino all’esaurimento dei suoi giacimenti – sono 2.537 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente: un valore altissimo, pari a 6,5 volte le emissioni dell’Italia nel 2023.
Per valutare l’attenzione di Eni al rischio di alimentare situazioni di repressione politica e di conflitto armato, Greenpeace Italia ha analizzato le performance in tema di democrazia e pace dei primi 17 Paesi in cui i progetti partecipati da Eni hanno un maggior impatto emissivo, ovvero: Kazakistan, Egitto, Mozambico, Emirati Arabi Uniti, Costa D’Avorio, Libia, Indonesia, Messico, Congo, Algeria, Qatar, Cipro, Nigeria, Ghana, Italia, Venezuela e Israele. Il risultato è che 12 Stati su 17 sono governati da regimi non democratici, cioè “autoritari” o “ibridi” secondo il Democracy Index, mentre 13 su 17 hanno un livello di pace non buono, cioè “molto basso”, “basso” o “medio” secondo il Global Peace Index. Emblematiche al riguardo le licenze concesse da Israele a Eni nelle prime settimane del bombardamento su Gaza per operare “all’interno dei confini marittimi dichiarati dallo Stato di Palestina nel 2019”, e le licenze ottenute in acque che la Ue riconosce come cipriote, ma contese dalla Turchia.
I 17 Paesi si classificano male anche in tema di tutela dei diritti e di corruzione percepita: per 13 Stati le violazioni dei diritti dei lavoratori sono “regolari”, se non “sistematiche” o addirittura in un contesto di “nessuna garanzia dei diritti” secondo il Global Right Index, mentre 12 Paesi sono al di sotto della media mondiale in termini di corruzione percepita secondo il Corruption Perceptions Index.
Per misurare l’attenzione di Eni all’ambiente e alla biodiversità, abbiamo infine calcolato la distanza tra i progetti partecipati dall’azienda e le aree protette: 56 progetti dei 767 partecipati da Eni sono risultati addirittura all’interno di un’area protetta (con Italia, Regno Unito e Paesi Bassi in testa). Per quanto riguarda i primi 17 Paesi per impatto emissivo, gli asset situati all’interno di un’area protetta sono 27, quelli posizionati a meno di 10 chilometri 151. Questa mappatura è stata sintetizzata nel rapporto “Eni, bomba climatica contro la pace e i diritti”, che evidenzia anche come una transizione energetica vera e giusta risolverebbe non solo l’emergenza climatica, ma anche tante crisi geopolitiche che minacciano la pace e la sicurezza globali.
L'articolo Le attività di Eni in relazione a clima, pace e diritti? Noi di Greenpeace le abbiamo mappate proviene da Il Fatto Quotidiano.