“Io so ma non ho le prove”, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1974 a proposito delle stragi fasciste che insanguinavano l’Italia. Per quella di Bologna, la più grave con i suoi 85 morti e 200 feriti, ci sono voluti quarantaquattro anni ma qualcosa è cambiato. Ora “sappiamo la verità e abbiamo le prove”, c’è scritto nel manifesto commemorativo dell’Associazione famigliari delle vittime.
“La strage fu organizzata e finanziata dalla loggia massonica P2, eseguita da terroristi fascisti, coperta dai vertici dei servizi segreti italiani”, dice il presidente dell’Associazione, Paolo Bolognesi. Fino a poco tempo fa c’erano verità storiche sui misteri italiani, un sentire comune diffuso, ma non c’erano verità giudiziarie conclamate. Una lunga serie di stragi senza colpevoli, da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, da Piazza della Loggia all’Italicus, dall’assassinio di Aldo Moro all’abbattimento del Dc9 sui cieli di Ustica.
Per Bologna no. Per la strage alla stazione del 2 agosto 1980 sono stati condannati in via definitiva gli esecutori materiali (i fascisti dei Nar Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini), i depistatori della P2 e dei Servizi segreti che si adoperarono per nascondere la matrice fascista dell’eccidio e costruire fantomatiche piste alternative (Licio Gelli, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte) e, per ultimi, in primo e secondo grado (manca ancora la Cassazione), i terroristi neri Gilberto Cavallini (Nar) e Paolo Bellini (Avanguardia Nazionale) come co-esecutori materiali, più il capo della P2 Licio Gelli, il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato, il massone Umberto Ortolani e l’ex senatore del Movimento sociale. Mario Tedeschi, come mandanti, organizzatori e finanziatori della strage.
Nonostante questa ormai solidissima verità giudiziaria che si è andata consolidando negli ultimi anni, la destra post-missina e neofascista ha sempre continuato a negare la matrice fascista e l’impronta golpista di quell’orribile massacro. E anche quando quella destra è andata al governo la musica non è cambiata. La parola fascista è rimasta sempre bandita. L’imperativo era starci a distanza come ai fili dell’alta tensione. Mancava solo il cartello “danger, chi tocca muore”. Tanto che stamane la domanda che girava tra le migliaia di persone che, come ogni anno, hanno partecipato al corteo e alla manifestazione nella piazza davanti alla stazione (Bologna da 44 anni aspetta il 2 agosto prima di andare in vacanza), era: chissà se oggi ce la faranno a pronunciare la parola proibita?
Ebbene, almeno uno di quelli che stanno al vertice quella parola oggi l’ha pronunciata e non gli è neanche venuto un coccolone: il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, parlando ai famigliari e alle istituzioni nel cortile di Palazzo D’Accursio. “Fu – ha detto – una strage neofascista, espressione di un disegno eversivo che mirava a colpire lo Stato nella sua componente più sensibile, vale a dire le persone comuni”. La cosa non è sfuggita. “L’ha detto. Considerando questo governo è una notizia”, ha subito commentato il sindaco di Ravenna e candidato presidente della Regione, Michele De Pascale. Per poi aggiungere: “Però che brutto che sia una notizia”.
E l’hanno pronunciata perfino, udite udite, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Ma con un distinguo che può sembrare di lana caprina ma non lo è affatto. Scrivono Meloni e La Russa: “Il 2 agosto del 1980 il terrorismo, che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste, ha colpito con tutta la sua ferocia Bologna e la Nazione”.
Dal momento che è risaputo che i fasci giudicano quelle sentenze di parte, Fioravanti e Mambro innocenti, la matrice nera una tesi tutta da dimostrare, è evidente che quel distinguo fa la differenza. E diventa un solco, una distanza enorme dalla verità giudiziaria finora raggiunta, dal sentire comune della città, dal cuore del messaggio inviato dal Capo della Stato. Scrive infatti Mattarella: “Ci uniamo ai familiari delle vittime e alla città di Bologna, teatro di una spietata strategia eversiva neofascista nutrita di complicità annidate in consorterie sovversive che hanno tentato di aggredire la libertà conquistata dagli italiani”. Eh, mica una “sottile” differenza.
Il solco poi si allarga e fa sclerare la Meloni quando si scende sul piano politico attuale. Ad accendere la miccia è Paolo Bolognesi in piazza, che dice: “Le radici di quell’attentato, come stanno confermando anche le ultime due sentenze d’appello nei processi Cavallini e Bellini, affondano nella storia del postfascismo italiano, nelle organizzazioni nate dal Movimento Sociale Italiano negli anni Cinquanta: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, che oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di Governo”.
Non l’avesse mai detto. “Sono profondamente e personalmente colpita dagli attacchi ingiustificati e fuori misura che sono stati rivolti alla sottoscritta e al Governo”, tuona la Presidente del Consiglio, “sostenere che le radici di quell’attentato sono nella destra di governo è molto grave e pericoloso, anche per l’incolumità personale di chi, democraticamente eletto dai cittadini, cerca solo di fare del suo meglio per il bene di questa nazione”. Ecco, ci mancano solo il vittimismo e i cattivi maestri dell’incolumità della premier. Per fortuna che Bologna non si è mai fatta e non si intimidire. Perché è come dice il suo cardinale, Matteo Zuppi: “Se gli autori fascisti della strage volevano terrorizzare per dividere, con complicità inquietanti, la reazione della città è stata di solidarietà e del bene comune che non fa arrendere all’ingiustizia”. Applausi.
L'articolo Strage di Bologna: Meloni prima usa la parola fascista ma con i distinguo poi la butta sul vittimismo proviene da Globalist.it.