Non tutte denunciano, alcune ci ripensano e ritrattano, la maggior parte segue l’intero percorso di “ricostruzione”.
L’identikit delle vittime di violenza - fisica, psicologica, economica, sessuale - non è delineabile, ma è certo che sono centinaia le donne che, ogni anno, si rivolgono al centro antiviolenza di Udine di via Pradamano per chiedere aiuto, sostegno, o anche solo per confrontarsi e capire se i campanelli di allarme sono reali. Di solito lo sono.
I segnali
L’uomo maltrattante è un ottimo manipolatore. Si presenta inizialmente come un compagno premuroso anche se i segnali di pericolo potrebbero essere individuati in tempo: isola la donna dalle amiche, si informa su orari e spostamenti, controlla il cellulare, la sprona a lasciare il lavoro, ché tanto ci pensa lui.
Il secondo step: svilimento con commenti denigratori («ma come ti sei conciata?»), sminuenti del suo valore («non sei capace»). Una escalation che quasi sempre termina con l’aggressione fisica.
«Noi aiutiamo a individuare e a riconoscere qualunque atteggiamento di tipo controllante – spiega la presidente dell’associazione Alice Boeri –. Sono meccanismi manipolatori che chiudono la donna in una gabbia sempre più stretta, e più le relazioni sono lunghe, più il rapporto malato mina l’autostima della donna.
Lavoriamo quindi sul percorso di ricostruzione della sua dignità: siamo capaci di fare tutto da sole, siamo già complete, non c’è nessun’altra metà della mela».
Le trappole
Gli uomini maltrattanti promettono di cambiare, di risistemare le cose, e chi li aveva scelti come compagni di vita cede all’imbroglio («non posso essermi sbagliata così tanto! Eravamo così felici», pensa). Inizialmente i violenti quasi mai si mostrano tali, anzi, all’esterno paiono dei compagni esemplari; ecco perché la donna si attacca ai ricordi positivi della relazione, grazie al proprio impegno e allo spirito di sopportazione si illude di tornare a quella apparente felicità.
«È ciò che chiamiamo “sindrome da crocerossina” – osserva Boeri –. Intanto l’uomo esercita sempre più potere e controllo, isolando la compagna. Non serve che alzi le mani, la violenza si esprime sotto vari aspetti. E ricordiamoci che il “raptus” non esiste, esso è solo l’apice di anni di maltrattamenti».
Come uscirne
Il primo passo è parlarne, non vergognarsi. «Spesso le donne pensano di essere il problema, quelle sbagliate. I centri antiviolenza sono luoghi di ascolto e accoglienza, non giudicanti, a sostegno delle vittime da tutti i punti di vista: pratiche legali di separazione, ricerca lavoro, autonomia abitativa, rapporti coi servizi sociali, supporto nel percorso giudiziario. È importante denunciare sempre, a tutela della donna che può così essere così protetta dalle misure cautelari».
Un grande lavoro di rete e personale formato accompagnano le donne, «che in situazione di pericolo devono chiamare il 1522 o le forze dell’ordine, le uniche ad avere potere di intervento». Si dirotta poi eventualmente ai centri di antiviolenza competenti (a Udine si trova in via Pradamano 41/b – telefono 0432.421011, assieme alla struttura comunale “Zero tolerance”), che dispongono di case rifugio.
Quattro dipendenti a tempo, reperibilità h24, accoglienze notturne, albergaggio d’emergenza garantiscono il massimo sostegno alla vittima. Un gruppo di autoaiuto coadiuva il percorso delle volontarie del centro con testimonianze e incontri: «Nessuno viene abbandonato».
Le vittime: chi sono
La maggior parte dei maltrattamenti, anche nei confronti di donne straniere (a Udine sono circa il 50% dei contatti al centro), provengono da italiani.
Il trend è costante negli ultimi anni, anche se dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin si è registrato un incremento delle richieste di aiuto. «Il risvolto mediatico ha permesso di acquisire consapevolezza, di riconoscersi in situazione di pericolo. Notiamo una maggiore sensibilità – evidenza Boeri –, ora le donne, anche molto giovani, arrivano da noi più in fretta. Ma sempre più denunciano anche tante anziane. D’altronde la violenza domestica riguarda tutte le età, estrazioni sociali, culture».
Rivoluzioni culturali
«Si sa, sono lente. Ma bisogna partire dall’insegnamento in famiglia per crescere nuove generazioni consapevoli, facendo notare ai figli cose apparentemente banali: sparecchiano entrambi i sessi? Com’è la divisione dei ruoli familiari? Chi cambia il pannolino? Perché è la donna a chiedere il part time? In realtà il reddito forte resta quello dell’uomo, e al lavoro della donna non si dà lo stesso valore dell’uomo.
Purtroppo sono comportamenti “normalizzati” di cui neanche ci accorgiamo, la società patriarcale avalla preconcetti. Mai come adesso è importante, quindi, l’azione di sensibilizzazione delle associazioni femministe». Basta una telefonata e l’operatrice fornisce i consigli giusti. Il servizio è gratuito.