Sarà Kamala Harris a porre fine alla dinastia politica fondata dai Clinton che da trent’anni gestisce la presidenza del partito democratico, e succederà per un semplice motivo: non vincerà le elezioni. La vice di Joe Biden è l’ultima rampolla della setta neoliberista del partito democratico, il circolo magico dei Clinton composto da politici, burocrati e advisors. Come ha recentemente ammesso Jeffrey Sachs, dopo l’11 settembre questo gruppo ha abbracciato con entusiasmo e determinazione l’agenda neoimperialista dei neo-con di Bush e Cheney. E cioè rilanciare la supremazia americana nel mondo usando, se necessario, anche le guerre.
Più dell’ottuagenario Joe Biden o dell’atletico Obama, Kamala Harris, che in quattro anni è rimasta sempre nel cono d’ombra del presidente e ha detto poche parole in pubblico, è parte integrante della tappezzeria clintoniana, la carta da parati affissa nelle sale del potere americane dopo la caduta del muro di Berlino. Fedelissima della coppia Clinton che insieme a Nancy Pelosi l’ha promossa, Kamala guarda il mondo attraverso la lente della globalizzazione di Bill e l’America con quella d’ingrandimento della delocalizzazione selvaggia promossa dalla sua amministrazione durante gli otto anni della presidenza. Un’America, si badi bene, essenzialmente capitalista, elitaria e bianca: una nazione dove, conseguentemente, le diseguaglianze hanno assunto proporzioni da terzo mondo. E’ questa un’America diversa da quella degli anni Ottanta, ridotta ad un teatrino per ricchi e super ricchi gestito della setta clintoniana, i veri burattinai. Aver incamerato personaggi come Kamala Harris e Barack Obama nel copione è servito a confondere le idee e a nascondere il vero obiettivo della politica americana: la supremazia del capitale americano nel mondo.
In questa America l’1 per cento della popolazione ha assorbito gran parte della ricchezza generata dalla globalizzazione e delocalizzazione, l’industria delle armi e quella bellica sono tornate al centro della politica grazie alla proliferazione dei conflitti promossi dalla Casa Bianca, la classe operaia ha perso il lavoro e si è persa nella crisi degli oppiacei, la classe media è sprofondata nella povertà, la violenza razziale è rifiorita e le carceri si sono riempite di carcerati principalmente neri.
Ironia della sorte vuole che nel 2020 Kamala Harris scivolò sulla buccia di banana razziale, un capitombolo che la mise fuori gioco nella corsa alla Casa Bianca. Responsabile fu un’altra candidata non bianca e donna, l’hawaiana Tulsi Gabbard, che contestò nei dibattiti pubblici la reputazione professionale ‘impeccabile’ di Harris quando era district attorney (procuratore distrettuale) della California: 1,500 persone imprigionate per aver fumato la marijuana (Harris si fece una sonora risata quando le chiesero in tv se aveva mai portato alla bocca uno spinello); occultamento delle prove dell’innocenza di un detenuto nel braccio della morte rilasciate solo dopo che il tribunale l’obbligò a farlo; posticipazione della liberazione dei carcerati, molti neri, oltre i termini stabiliti dalle condanne al fine di continuare a farli sfruttare come lavoratori a bassissimo costo dallo stato della California; mantenimento del sistema delle cauzioni in contanti che penalizza i poveri, anche loro principalmente neri, rispetto ai ricchi.
Kamala Harris non vincerà le elezioni perché, come fece notare Gabbard (che non fa più parte del partito democratico), appartiene ad un sistema vecchio, corrotto ed obsoleto, quella carta da parati ormai fatiscente che si sta staccando. Dall’inizio degli anni Novanta, dietro tutte le presidenze democratiche c’è la setta clintoniana, inclusa quella del senile e malato Joe Biden, un burattino come Harris. Ecco la riposta alla domanda che molti si pongono “chi ha governato l’America negli ultimi quattro anni?”. Non basteranno i miliardi di Hollywood e quelli di Soros a nascondere questa realtà, né a far sì che si prolunghi nel tempo lo scempio della vera democrazia, tantomeno convinceranno l’elettorato a votare una candidata guerrafondaia ed elitaria: il vaso di Pandora si è rotto. Gli americani queste cose le hanno intuite da tempo, gli europei e il resto del mondo tardano a farlo.
Il mondo degli anni Novanta, quello che dette vita all’economia canaglia, volge dunque al termine. Era ora! Non sappiamo cosa ci aspetti dietro l’angolo, forse andrà anche peggio? Nessuno può dirlo. Ma una cosa è certa: i frutti malefici della corsa geografica del capitale verso un costo del lavoro sempre più basso, e quelli della ricostituzione dell’egemonia americana nel mondo, hanno iniziato a macerare sull’albero e rischiano di contaminare anche questo. Trump questa verità l’ha capita da tempo e l’ha usata per essere eletto nel 2016 – nel suo discorso inaugurale del 2016 parlò specificatamente della fine della carneficina della classe operaia americana.
Se eletta, Kamala Harris farà quello che ha fatto il vecchietto Biden: promuoverà il binomio economia canaglia e politica estera imperialista – è quanto Gobbard sostiene. E il mondo ne pagherà le conseguenze. I suoi errori di politica estera si aggiungeranno alla disintegrazione della Libia, all’apertura ai Talebani, alle guerre civili in Siria e all’abbandono della popolazione civile (amministrazione Obama), alla fuoriuscita dall’Afghanistan e tragedia della popolazione civile abbandonata ai Talebani, alla guerra in Ucraina e all’appoggio a Israele nell’invasione e al massacro di Gaza (amministrazione Biden), un tratturo insanguinato progettato inizialmente dal guerrafondaio Dick Cheney in Iraq e trasformato in una ragnatela di sentieri dal segretario di stato Hillary Clinton e dai suoi adepti.
La stampa di regime queste cose non ce le ricorda, forse neppure le conosce? La stampa di regime osanna i burattini americani e i volti celebri che recitano con loro e non si accorge che la scia di sangue che ad ogni passo si lasciano dietro è visibile.
La celebrazione di Kamala Harris e quella della carriera di Joe Biden che riempie i nostri notiziari e giornali è una gigantesca farsa, è ora di aprire gli occhi e smetterla di sostenere candidati semplicemente perché donne, uomini non bianchi o oppositori di Donald Trump. L’uguaglianza vera come la vera democrazia è daltonica e non distingue il genere, poggia sui fatti e oggi questi ci dicono che la nazione era più pacifica, più libera, più democratica – e le diseguaglianze minori – alla fine degli anni Ottanta che oggi.
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