Oggi, ricordo tre dei miei migliori amici – due uomini e un ragazzo – assassinati da Cosa nostra. Facevano parte di quella meravigliosa Squadra mobile di Palermo, che gli uomini de FBI la definirono “l’Università delle investigazioni italiane”. Il commissario di polizia Beppe Montana [insieme a me nella foto], ucciso il 28 luglio 1985, il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, entrambi uccisi il 6 agosto 1985. Voglio ricordare anche il sacrificio di Rocco Chinnici, ucciso da un’autobomba il 29 luglio 1983, insieme a lui morirono i carabinieri Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile dove abitava Chinnici, Stefano Li Sacchi. Scampò alla strage, seppure ferito, Giovanni Paparcuri.
A costo di apparire noioso, rimarco ancora una volta, che essendo stato coinvolto nelle indagini, dico che la strage Chinnici poteva essere evitata. Oggi, se posso scrivere queste poche righe, devo ringraziare Ninni Cassarà, che mi salvò la vita.
Io, ero stato allontanato da Palermo per motivi di sicurezza e nel mese di aprile/maggio 1985, fui mandato a Palermo per compiere un’indagine insieme a Beppe Montana. L’ultimo giorno di mia permanenza, decidemmo di andare a pranzo con Ninni Cassarà in un ristorante di Monreale; trascorremmo momenti di spensieratezza come i veri amici sanno fare. Prima di salutarci, Ninni mi consegnò una delega di indagini, dicendomi: “Falcone sa che sei qui a Palermo e mi ha dato questa delega per svolgere indagini nei confronti di due fratelli imprenditori edili, che stanno costruendo dei residence nella Riviera romagnola. Si tratta di amici molto stretti di Totò Riina”.
Ci salutammo con un forte e affettuoso abbraccio e lasciai Palermo. Il Viminale mi autorizzò a spostarmi nel luogo indicato dalla delega, ch’era diverso dalla mia giurisdizione di lavoro. Quindi, insieme a un paio di agenti inizio le indagini, che trovano conferma su quanto indicato nella delega di Falcone.
Durante l’attività investigativa, mi giunse la notizia dell’uccisione di Montana. Evidenzio, che già sin dalle ore successive all’omicidio Montana, Cassarà mi consigliò di non raggiungere Palermo. Io ritenni che quell’invito fosse la conseguenza di pregressa attività investigativa, molto riservata, compiuta in quei due mesi con Beppe Montana, o da indagini e arresti compiuti durante la mia permanenza alla Mobile. Successivamente Ninni Cassarà cambiò l’invito con un ordine perentorio, ossia mi vietò di partire per Palermo, tant’è che un paio di volte a giorno mi telefonava per sincerarsi che fossi in ufficio o a casa. Naturalmente non conoscevo i motivi della sua insistenza: fui informato dopo la sua morte. Ricordo che nell’ultima telefonata, visto che ero preoccupato per lui, specie dopo la morte di Salvatore Marino alla Mobile, mi rispose di stare tranquillo, perché a breve sarebbe stato trasferito alla Criminalpol di Genova. Quella fu l’ultima nostra telefonata.
Nel frattempo, continuai l’attività in Riviera fino a quando venni raggiunto da una persona di “mia fiducia”, residente nel luogo delle indagini, che mi disse: “Hanno ammazzato un poliziotto a Palermo”. Risposi che lo sapevo, ma io mi riferivo a Montana, ma lui insistette. “No, è successo da poco”. Quel giorno avevamo fatto tardi ed eravamo ancora a pranzo. Pregai il proprietario del ristorante di accendere la tv e vidi le immagini dell’agguato di via Croce Rossa a Palermo. Mi crollò il mondo addosso, lasciai la zona e rientrai in sede. Chiesi e ottenni di trasferire le indagini ai colleghi della Criminalpol di Bologna.
Ormai distrutto dalla morte di Ninni, Roberto, Beppe, Lillo Zuchetto, Filadelfio Aparo, decisi di lasciare la Mobile. Non avevo più voglia di farne parte. Il questore di allora, capì il mio dramma e mi nominò responsabile della sezione antiterrorismo della Digos: incarico che durò sino all’inizio del 1992 quando fui trasferito alla DIA.
Cosa accadde dopo la morte di Montana e che Cassarà – di proposito – mi nascose? Dopo la morte di Beppe Montana i tg e giornali pubblicarono una foto e un video, che mi ritraeva insieme a Montana. Due persone qualificatesi come poliziotti, si presentarono nella trattoria di famiglia, chiedendo a mia sorella se e quando sarei arrivato per partecipare ai funerali di Montana. Mia sorella rispose di non saperlo e una volta che uscirono, le venne il dubbio, che quei due non fossero miei colleghi. Del resto, ne conosceva parecchi, perché spesso andavano lì a cenare. Uscì per leggere il numero di targa, ma erano già spariti. Cassarà informato dell’accaduto, mandò dei colleghi, con le foto segnaletiche dei mafiosi, ma lei non riconobbe nessuno.
Ed ecco il motivo per cui sono ancora in vita: grazie al gesto d’amore di Ninni Cassarà. Conobbi Ninni Cassarà all’inizio degli anni 80: c’era un legame che ci univa, un suo zio era amico della mia famiglia, sin da quand’ero piccolo. I miei colleghi che vissero con “onore e disciplina” rappresentano la pietra miliare del sacrificio verso lo Stato: io li ricordo sempre non solo negli anniversari della loro morte.
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