Nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1956 al largo dell'isola di Nantucket il transatlantico Stockholm taglia la rotta dell'Andrea Doria e la sperona violentemente provocando la morte di cinque membri dell'equipaggio e di quarantasei passeggeri alloggiati nelle cabine interessate.
Eugenio Giannini, 95 anni, è l’ultimo ufficiale dello Stato maggiore dell’“Andrea Doria” sopravvissuto al naufragio.
Gli è montata una furia forza otto, per ricorrere a un termine nautico, quando a suo tempo ha sentito in tv le dichiarazioni di Francesco Schettino, il comandante della Costa Concordia: «Parole che mi hanno indignato, pensando all'abissale distanza rispetto a una figura come quella di Piero Calamai. E allora ho deciso di farlo in omaggio a lui».
E' stato così che sulla soglia degli 85 e peraltro attivissimi anni, Eugenio Giannini ha preso carta e penna, e si è messo a scrivere un libro-memoriale sul naufragio dell'"Andrea Doria", al cui comando c'era appunto Calamai.
Ne ha tutti i titoli, perché quel tragico giorno era il terzo ufficiale a bordo della nave, su cui era imbarcato da cinque mesi: nel frattempo sono scomparsi sia lo stesso Calamai, sia il secondo, Curzio Franchini.
Il libro uscirà all'inizio dell'anno prossimo, e farà luce su alcuni dei punti più controversi, a partire dalle cause del disastro.
L'autore ne anticipa alcune parti. Spiega Giannini: «La responsabilità fu tutta della nave svedese, la Stockholm, dove il terzo ufficiale, giovane ed inesperto, venne lasciato solo in plancia. Una scelta incosciente da parte del comandante Nordenson, in quel tratto di mare tra Nantucket e New York che era particolarmente trafficato. L'ufficiale aveva maneggiato col radar, e credeva di trovarsi sulla scala delle 15 miglia; invece era su quella delle 5. A un certo punto venne chiamato al telefono dalla sala macchine, girando le spalle alla prua; quando tornò a voltarsi ci vide. Ma comunque, sarebbe stato sufficiente che non si fosse mosso, o che avesse ordinato l'indietro tutta: sarebbero bastati solo 12 secondi per evitare l'impatto, anche perché la Stockholm era una motonave in grado di fermarsi nello spazio di 350 metri».
Ci sono molti altri dettagli che Giannini riporterà nel libro, documentati anche con foto, e che chiariscono le responsabilità svedesi. Ma il successivo processo si concluse con un accordo extragiudiziale, di cui l'unico a pagare le spese fu proprio l'incolpevole Calamai.
Su questa vicenda Giannini è durissimo: «La società Italia, armatrice della Doria, lo ripagò a pesci in faccia, trattandolo ignominiosamente. Gli mandarono attestazioni scritte, assicurandogli totale stima e garantendogli che gli avrebbero affidato altri comandi appena l'inchiesta si fosse conclusa; addirittura una volta arrivarono a invitarlo a farsi fare delle nuove divise, che poi rimasero nell'armadio. Non ebbe mai più una nave, fino al giorno della pensione, mentre a Nordenson malgrado i suoi macroscopici errori venne data addirittura la nuova ammiraglia della flotta».
Eppure, al comportamento di Calamai nella circostanza si deve il salvataggio di tantissime vite: «La Doria ci mise undici ore ad affondare. Per tutto quel tempo il comandante continuò con grande calma ed energia a indicarci cosa fare. Si dice che per conoscere un uomo non basti una vita; ma a me sono stati sufficienti quelle undici ore per capire di che stoffa fosse fatto».
Il ricordo di Giannini rimane ancora vivido: «Era il vero comandante, prima di tutto una persona educata. E l'educazione esclude l'arroganza, che purtroppo spesso contraddistingue chi comanda. Non aveva bisogno di alzare la voce per affermare il proprio ruolo. E' stato descritto come un uomo schivo, ma non è esatto: prendeva parte attiva alla vita di bordo, perché spettava al suo compito di padrone di casa. Ma un comandante non dev'essere un intrattenitore: deve prima di tutto trasmettere un senso di sicurezza a chi è a bordo. Il mare oceano, come si chiamava un tempo, vuole uomini veri. E Piero Calamai lo era».
Giannini smonta anche l'artificiosa polemica sul presunto tesoro di bordo, che si troverebbe ancora in fondo all'Atlantico nel relitto della nave: «Si è parlato di un valore complessivo di addirittura 4 miliardi di lire. E' totalmente falso. Alle 6 della mattina successiva saremmo approdati a New York, e le regole prevedevano che entro le 18.30 del giorno precedente tutte le pratiche di bordo dovessero concludersi. Così entro quell'ora tutti i beni personali e i gioielli dei passeggeri erano stati restituiti ai rispettivi proprietari, e nella cassaforte erano rimasti 40 milioni, vale a dire la normale giacenza di tesoreria».
In tutta la vicenda c'è un particolare che ha dell'incredibile. Lasciata la Marina, Giannini, toscano di Viareggio, si è dedicato a un'attività privata che l'ha portato a vivere prima a Milano, poi a Padova. Nel 1980 si è trasferito a Rubano, alle porte della città.
La sua vicina di casa è una signora che negli anni Cinquanta aveva deciso di partire come missionaria, ma all'ultimo momento era stata dissuasa da una parente stretta cui era molto affezionata.
Non seguì così la scelta di due sue amiche, che nel luglio 1956 si imbarcarono proprio sull'Andrea Doria per raggiungere New York, e da lì il luogo di missione in Sudamerica. Nella collisione persero la vita entrambe: «Io e lei siamo due sopravvissuti», commenta Giannini. Forse, molto più di una coincidenza.
Testimonianza raccolta nel 2012 da Francesco Jori