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Tendenza Elly



Possono ricordare la segretaria Pd nostrana: un po’ di lotta (da salotto), molto di governo locale, un po’ radical-eco, ma furbe quanto basta... Sono le esponenti della sinistra continentale (con addentellati oltreoceano). Il loro obiettivo è sopravvivere alle stagioni politiche: come dimostra la sindaca «olimpica» di Parigi, Anne Hidalgo.

Nuotare? Al massimo galleggia». La battuta del bouquiniste sul Lungosenna non ha niente di olimpico né di ecologico, è un editoriale politico in quattro parole. Il bersaglio è Anne Hidalgo, sindaca di Parigi da 10 anni, specialista nello stare a bagnomaria dentro il salvagente con l’ochetta. Nell’estate dei Giochi, in cui si è tuffata pure nel fiume della sua città a favore di telecamere, è la rappresentante più famosa, più criticata, più photoshoppata di un club mondiale molto esclusivo e poco resiliente: quello delle pasionarie della sinistra radicale al potere. Come Yolanda Díaz, Alexandria Ocasio-Cortez, Manon Aubry, Nooshi Dadgostar e le altre, tutte adepte della virago tedesca Annalena Baerbock. Tendenza Elly Schlein, appunto. Falò sulla spiaggia, i primi accordi di Imagine, parole chiave come «red, green and soul», gay pride, climate change, smanie antifa e tanta demagogia. Della serie: aizziamo il popolo odiando il popolo. Parafrasando Montanelli, per loro la rivoluzione non finisce all’ora di pranzo ma all’ora del centrifugato bio.

La regina dei cinque cerchi Madame Hidalgo è afflitta dal sesto cerchio, quello alla testa. Le Olimpiadi imminenti l’hanno sfinita e la pretesa di trasformarle in un Expo dello sport verde la sta esponendo a lazzi e polemiche. È dai tempi del soviet che, a sinistra, la cinghia di trasmissione fra ideologia e pratica funziona male. Sta di fatto che la sindaca socialista nata spagnola (si chiamava Ana María, ha visto la luce a San Fernando in Andalusia 65 anni fa e ha ancora la cittadinanza iberica) ha spinto l’Eliseo a investire 1,4 miliardi per rendere balneabile la Senna ma i colibatteri continuano a sguazzare meglio di lei. Così i bouquiniste della Ville Lumière hanno ricominciato a esporre un pamphlet di qualche anno fa del saggista Benoît Duteurtre contro la gestione municipale di Parigi. Titolo: Les dents de la maire. Traduzione con doppio senso: i denti della sindaca, ma anche i denti della «squala». Che sarebbero la stessa persona.

Laureata in diritto sindacale, Hidalgo si iscrisse presto al partito socialista. Quando i dirigenti si accorsero che era una delle poche donne, la lanciarono al ministero del Lavoro con il premier Lionel Jospin. Arrivò in vetta per una coincidenza da cronaca nera: nel 2002 il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë fu accoltellato da un mitomane e il timone dell’Hôtel de Ville fu affidato alla sua vice. Era lei. Nel 2014 diventò maire con tutti e due i significati. Inserita perfettamente nel mondo social-comunista francese, Hidalgo era cattolica ma per poter argomentare di aborto, eutanasia e maternità surrogata cavalcando il politicamente corretto diventò atea in una notte.

Quando Elly Schlein andò a trovarla nel primo «viaggio Erasmus», dopo la nomina al Nazareno, fu liquidata in fretta: stretta di mano e via. La sindaca aveva poco da insegnarle: due anni fa corse per l’Eliseo e portò il partito socialista a un risultato microscopico, 1,75 per cento. La votarono solo i gestori di monopattini elettrici, con i quali aveva infestato Parigi facendo imbufalire i pedoni. Poi s’è ricreduta e li ha tolti di mezzo con un referendum. L’anno scorso ha dovuto gestire uno scandalo surreale: il Tahiti-gate. Con la scusa di visitare il sito olimpico delle gare di surf, andò con la famiglia in Polinesia a trovare la figlia trasferitasi laggiù. E mandò il vice a vedere gli impianti sportivi.

Hidalgo non è mai stata così debole dal punto di vista politico, accerchiata dall’opposizione gollista e bacchettata dal ministero dell’Economia per il debito monstre accumulato dalla capitale durante la sua gestione: 7,7 miliardi di euro. In autunno potrebbe arrivare il commissariamento della metropoli e per lei sarebbe uno schiaffo: mai una città francese era finita sotto le forche caudine dopo Marsiglia. Nel 1939. Fanatica della transizione verde, in questi giorni sta facendo una figuraccia anche con le delegazioni dello Sport mondiale: si è rifiutata di dotare il Villaggio olimpico di condizionatori e costringe gli atleti a portarsi i pinguini De Longhi da casa.

È l’esempio plastico delle signore turbo-radical, imitato con successo e qualche imbarazzo a Madrid dalla vicepremier Yolanda Díaz, la battagliera galiziana che tiene in pugno il governo di Pedro Sánchez. Leader di Sumar (Unire), è a capo di una pattuglia di 25 pasdaran alla Moncloa e se li toglie, l’esecutivo di minoranza cade. Così è lei a dettare un’agenda postmarxista: salario minimo di 950 euro agli studenti dai 18 ai 23 anni per finanziare l’università (trasformatosi in un sanguinoso reddito di cittadinanza junior), abolizione del Jobs Act in salsa ispanica, laicizzazione sempre più radicale. Ma soprattutto riconoscimento della Palestina libera e vena anti-israeliana con i toni di un ayatollah iraniano.

Due mesi fa, in un video ufficiale con le bandiere spagnola ed europea alle spalle, ha scandito: «Il riconoscimento non è la fine del percorso: l’orrore non può continuare. L’Unione europea deve rompere gli accordi con Israele e aprire un’inchiesta sui crimini di guerra. Insomma far finire il genocidio. La Palestina dev’essere libera dal fiume Giordano al mare». From the river to the sea, lo slogan antisemita di Hamas che sottintende la distruzione di Israele. Incidente diplomatico immediato con Tel Aviv. Per lei nessun problema perché il suo colore preferito è «il rosso fuoco». Di famiglia comunista attiva nell’area antifranchista (con papà e zio sindacalisti che trascorsero un periodo in clandestinità), donna Yolanda ha rivelato il suo ricordo più tenero: «Quando, bambina di quattro anni, ricevetti un bacio sulla mano dal leader comunista Santiago Carrillo». Oggi ne ha 53 e non se l’è ancora lavata.

Le leader europee «tendenza campeggio e comitato centrale» hanno da sempre qualche problema con la politica lontana dai salotti. È capitato anche a un totem come la tedesca Annalena Baerbock, ieri avanguardista gruppettara della Linke con chiodo nero da biker, oggi ministra degli Esteri del governo di Olaf Scholz, allineata e coperta, con i foulard tonalità smeraldo di Hermès come massimo esempio di trasgressione green.

Da giovane si tuffava dal trampolino, quando è diventa l’icona dei Verdi in birkenstock volava nei sondaggi. Poi la crisi economica ha cominciato a mordere, le sue frasi gruppettare hanno avuto meno impatto, il ruolo istituzionale ha mostrato i limiti di questa signora di 44 anni ormai senza la margherita fra i denti. E alle Europee è arrivata la batosta. Adesso gli avversari al Bundestag dicono che «si scioglie prima lei dei ghiacciai».

Per una radical che scende eccone una che sale: Manon Aubry, braccio sinistro di Jean-Luc Mélenchon, Giovanna d’Arco rossa della gauche caviar con strapuntino riservato a vita davanti alle ghigliottine di place de la Bastille. A 34 anni guida l’armata brancaleone di France Insoumise. Dopo le ultime laceranti elezioni chiede di guidare il Paese e ripete in tv lo slogan: «Emmanuel Macron non è più in grado di governare».

Prefigura scenari da rivoluzione d’ottobre, viene raffigurata nelle vignette come il furbo Gavroche, di victorhughiana memoria, tuona di rompere le relazioni industriali con Israele. La solita spia della riserva. Neppure Alexandria Ocasio-Cortez, omologa dem americana, è arrivata a tanto. L’anima «squad» (il plotone col pugno chiuso) delle rivoluzionarie a stelle e strisce sa che c’è un argomento intoccabile alla Casa Bianca: la sacralità della lobby ebraica. Ad «AOC» è stato chiesto di non fare danni durante quest’estate pre-elettorale. Così si è limitata, dopo l’attentato a Donald Trump, a mandare via social un messaggio di pacificazione talmente artefatto da non contenere mai il nome della vittima dei proiettili di Butler.

Tornando nella Vecchia Europa, una fabbrica naturale di Erinni radical è il Grande Nord, dove (per dirla con Giorgio Gaber) anche le lavatrici «sono bianche, fredde, distaccate. In una parola socialdemocratiche».

Poco democratica e molto «socialist» è la finlandese Li Andersson, 37 anni, ex ministra dell’Educazione e leader del partito-minestrone Alleanza di sinistra, con punti di forza tematici prevedibili come la liberalizzazione delle droghe leggere, la settimana lavorativa di quattro giorni e una «resistenza permanente delle donne contro i populismi di ogni genere». Compete nell’area artica con la più esotica Nooshi Dadgostar (39 anni), svedese nel passaporto ma non nel nome per via del padre curdo-iraniano. È balzata all’onore delle cronache internazionali per aver fatto cadere l’esecutivo di centrosinistra stile Bertinotti, silurandolo sugli affitti equo canone. Oggi a Stoccolma governa la destra.

Bizzose, autoreferenziali, qualche volta autoritarie, le signore in rosso sono sempre imprevedibili. Come Ada Colau, ex sindaco di Barcellona, attivista barricadera che ha fatto carriera dentro la balena rossa come leader del «movimiento okupa». Okupa che cosa? La nostra novella europarlamentare Ilaria Salis saprebbe dare al volo la risposta esatta.

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