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L'Italia torna in miniera



Bruxelles vuole liberare l’Europa dalla dipendenza da terre rare provenienti dalla Cina. E anche il nostro Paese corre ai ripari, rilanciando il settore estrattivo di queste materie prime essenziali nell’hi-tech con la semplificazione degli iter nei progetti più importanti. Resta, però, il nodo dell’ostilità delle comunità locali.

Mentre l'Europa pare non avere alcuna intenzione di modificare il Green deal, la Cina fa quadrato sul mercato delle terre rare. La notizia, riportata dall’agenzia Reuters, anche se poco rilanciata dai media europei, ha fatto tremare i polsi agli operatori del settore. Pechino ha svelato una serie di norme a protezione della fornitura di terre rare, in nome della sicurezza nazionale. In particolare, il Consiglio di Stato cinese ha stabilito che questi minerali critici, usati per realizzare prodotti hi tech, appartengono al governo che supervisionerà lo sviluppo del settore di cui il Paese detiene la leadership mondiale, controllando il 90 per cento dal produzione mondiale di minerali raffinati. Sarà, inoltre, realizzato un database che traccerà le esportazioni di queste materie preziose.

Già lo scorso anno Pechino aveva introdotto restrizioni all’export di alcuni elementi quali il gallio e il germanio, ampiamente utilizzati nell’industria dei chip, sostenendo la necessità di proteggere gli interessi e la sicurezza nazionale.

Il giro di vite arriva (sarà un caso?) poco dopo il varo dei dazi sull’import di auto cinesi e dall’entrata in vigore della legge europea che fissa gli obiettivi per il 2030 sulla produzione interna di minerali essenziali alla transizione verde, in particolare le terre rare. Pechino non crede che la Ue possa diventare autosufficiente per le estrazioni minerarie e, siccome è previsto che la domanda europea aumenterà di sei volte fino al 2030 e di sette volte entro il 2050, vuole proteggere l’approvvigionamento interno.

Al tempo stesso, tenendo sotto controllo le esportazioni di minerali e vietando l’uscita dal Paese di tecnologie per la produzione di magneti con le terre rare, si prepara a usare questo settore come un’altra arma di ricatto verso l’Occidente. «Gli obiettivi posti dal Critical Raw Material Act, il nuovo regolamento comunitario volto a spezzare la dipendenza europea dai fornitori stranieri, sono ambiziosi e difficilmente raggiungibili. Inoltre, l’Europa parte con forte ritardo rispetto a Pechino che negli ultimi decenni ha continuato ad aprire miniere e ha stretto accordi con Paesi grandi estrattori di minerali» afferma Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity e analista del mercato delle materie prime.

L’Unione europea ottiene 14 materie prime critiche su 27 dalle importazioni, con una forte dipendenza dalla Cina. Tra queste l’antimonio, il berillio, il gallio, il germanio, il titanio e il vanadio sono oggi importate al 100 per cento da Paesi terzi. Mentre per altri minerali rari fondamentali, come il litio, dipendiamo al 95 per cento da altri Paesi. Per questo, entro il 2030, la Commissione intende avere il 10 per cento dei minerali critici impiegati dall’industria europea, estratti direttamente dal territorio comunitario e un ulteriore 15 per cento proveniente dal riciclo dei prodotti già presenti nel Vecchio continente. L’obiettivo più impegnativo riguarda la lavorazione di questi minerali, di cui almeno il 40 per cento dovrà essere raffinato entro i confini dell’Unione.

Il traguardo per il 2030 è di non dipendere da un singolo Paese terzo per più del 70 per cento delle importazioni di qualsiasi materia prima strategica. Come al solito quando si tratta di fissare i target della transizione energetica, la Commissione non ha tenuto conto delle criticità nella normativa, ovvero che al di là dei buoni propositi, ogni Paese deve fare i conti con l’ostilità delle comunità locali alle miniere e con la forza dei movimenti ambientalisti.

Due variabili che la Cina non conosce e che le hanno permesso di diventare il più importante produttore mondiale di questi minerali. Con le ostilità degli ecologisti si dovrà scontrare anche il governo italiano che, in attuazione del regolamento europeo, ha varato il decreto «Materie prime critiche» con l’obiettivo, come spiegato dal ministero delle Imprese e del Made in Italy, di «rilanciare il settore minerario italiano attraverso procedure semplificate per gli iter autorizzativi dei progetti strategici». Il testo scioglie alcuni nodi che finora hanno rallentato le esplorazioni del sottosuolo. Innanzitutto il tempo massimo di autorizzazione per le miniere, fissato in 18 mesi, che scende a 10 per i siti di riciclaggio e per il rinnovo di concessioni precedentemente esistenti. Poi gli incentivi all’apertura di questi siti, rappresentati da un sistema di royalties che saranno pagate allo Stato, e destinate al fondo sovrano italiano e alle Regioni, con una forbice compresa tra il 5 e il 7 per cento.

L’Italia, pur avendo numerosi giacimenti, ha abbandonato da decenni l’attività estrattiva per assecondare le crociate ambientaliste. Così siamo passati da 1.400 miniere in produzione nel 1950 a sole 76 nel 2020. Oggi, tra le 30 materie critiche individuate dall’Europa, nel Critical Raw Material Act, in Italia ne vengono ricavate e processate solamente tre: feldspati, fluorite e antimoni. Se nel primo caso raggiungiamo il 7 per cento della produzione globale, negli altri due siamo fermi all’1 per cento.

Non fanno meglio altri Paesi: la Svezia è ferma a due, Francia e Germania ne registrano rispettivamente sette e otto mentre la Spagna 10. Il governo stima che le miniere possano riaprire comunque a partire dal 2026. La normativa prevede che il ministero delle Imprese e del Made in Italy debba redigere il Registro nazionale delle aziende e delle catene del valore strategiche, per individuare le grandi imprese che operano sul territorio nazionale e che utilizzano materie prime strategiche per batterie, aeromobili, dispositivi elettronici mobili, robotica, produzione di energia rinnovabile e semiconduttori.

Come riportato dall’Ispra, l’ Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, i territori dove c’è più concentrazione sono Piemonte (cobalto e nichel), Lombardia (zinco, piombo e argento), Liguria (titanio) , Lazio (litio e terre rare), Toscana e Campania (terre rare).

Questa ricchezza ha attirato l’interesse di gruppi internazionali come l’australiana Altamin, che da anni studia i territori dove sono presenti i maggiori giacimenti e ha già investito 20 milioni. Il progetto più avanzato è quello di Gorno in Lombardia che fino a 40 anni fa produceva zinco, piombo e argento sotto la Samim. Nel Lazio invece, tra Campagnano, Galeria e Ferentino, si cerca il litio geotermico.

Poi ci sono i progetti, in fase di revisione e in attesa di finanziamenti, per Punta Corna in Piemonte, famosa un tempo per le miniere di cobalto e quelli, fermi alle fasi iniziali, in Liguria e Emilia. I problemi però per chiunque si affaccia in Italia sono la certezza dei tempi, i fondi e l’ostilità delle comunità locali. Secondo Torlizzi il decreto ha «un punto debole perché non prevede incentivi alla raffinazione. Se ci limitiamo a estrarre i minerali e dobbiamo portarli oltreconfine per raffinarli, perdiamo ricchezza strategica. Il testo quindi va integrato». Il decreto ha aperto la strada, ma tutto lascia supporre che non sarà breve e nemmeno facile.

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