Gli incontri con Phil Collins, Whitney Houston, Aretha Franklin. E poi le collaborazioni a dischi cult di Zucchero e Ligabue, passando per Elisa e Caterina Caselli. Il produttore Corrado Rustici racconta a Panorama aneddoti di una vita da produttore. «I brani di oggi? Rumore. Sono solo un brutto copia-e-incolla».
Dietro ogni grande disco c’è un grande produttore. Per decenni questa è stata una delle poche certezze del music business. Il produttore crea il suono e la direzione delle canzoni, ma soprattutto media tra l’artista e le nuove tecnologie e lo spinge ad andare oltre i suoi limiti. È questo quel che fa da molto tempo Corrado Rustici, classe 1955, il regista di album che sono nella storia della musica italiana: da Oro incenso & birra di Zucchero ad Arrivederci mostro! di Ligabue, a Pipes & Flowers, il disco d’esordio di Elisa, a Mentre tutto scorre dei Negramaro.
«Tutto inizia a Londra con i Nova, un progetto jazz rock. Avevo appena diciannove anni» racconta. «Pete Townshend degli Who che era amico del nostro manager venne a sentirci, ci prese in simpatia e ci lasciò usare gratis il suo studio nella campagna inglese. Abbiamo avuto anche Phil Collins ospite alle percussioni. La band di mio fratello Danilo, gli Osanna, aveva aperto alcuni concerti italiani dei Genesis in Italia… Poi, per il missaggio di un nostro album, avvenne l’incontro con George Martin (Beatles, ndr) e in quel momento è scattata la scintilla che mi ha spinto a diventare un produttore» racconta adesso che ha convogliato tutte le sue esperienze nella pagine di un libro, Breviario del produttore artistico (Volontè&Co).
La svolta arriva negli Stati Uniti con il leggendario team di produzione di Narada Michael Walden: «Dopo Whitney Houston, fu il turno di Aretha Franklin... Lei non veniva in studio quando facevamo le basi musicali. Non le piaceva volare e aveva un carattere micidiale. Cantava le sue parti in sala d’incisione a Detroit. Al massimo tre volte per ogni singola canzone. È capitato che le si chiedesse di rifare un cantato, ma la risposta è sempre stata lapidaria “No, no tesoro mio, io ho già fatto la mia parte adesso sono affari tuoi”» spiega prima di entrare nel merito della collaborazione con Zucchero.
«Scrive splendide canzoni pop e fin dall’inizio del nostro lavoro insieme si è aperto al mio modo di lavorare, cioè di importare nei suoi pezzi il sound americano. È così nata l’unione tra il suo talento e il suo modo di scrivere e le mie influenze che venivano dalle esperienze con Aretha Franklin, James Brown, George Benson e Whithey Houston» sottolinea.
Ma cosa fa esattamente un produttore? «Tutto quel che serve a dare identità e originalità a un album o a una canzone. Il produttore lavora anche sui minimi dettagli: Zucchero, per esempio, come quasi tutti gli italiani, quando canta in inglese, non ha una pronuncia perfetta di sillabe come “th”. Così è successo che per alcuni brani lui dovesse ricantare con la pronuncia corretta solo e soltanto quella sillaba che poi ho provveduto a inserire a mano in ogni singola parte della canzone. Ci volevano ore, oggi con il digitale basta un attimo» spiega.
Capitolo Elisa: «Ero con Caterina Caselli nella sua casa discografica, mi stava facendo ascoltare alcuni giovani artisti per capire se c’era un mio interesse a lavorare con loro. Niente che fosse nelle mie corde fino a quando Caterina mi ha mostrato un video arrivato il giorno prima con una ragazzina che cantava alcune canzoni accompagnata da un pianista. Dopo trenta secondi, non ho avuto dubbi: «Vorrei lavorare con lei». Detto, fatto, ho portato Elisa in California per sei mesi e insieme abbiamo creato le condizioni per il suo primo album. Devo dire che Caterina è stata bravissima e lungimirante nel credere al progetto di un’artista italiana che esordiva con un album interamente cantato in inglese». Un’altra era geologica dell’industria musicale, viene da dire: «Oggi manca la coltivazione sana del talento. C’è stato un tempo in cui i grandi profitti delle case discografiche venivano investiti in artisti sconosciuti. A un certo punto, dopo la metà degli anni Novanta, si è deciso che era venuto il momento di non dipendere più dai grandi artisti che vendevano tre milioni di copie di un disco e poi magari ne facevano uno che non piaceva alla gente» continua Rustici.
«Meglio tre milioni di “artisti” che vendono una copia e che si fanno i dischi da soli. Così l’arte di fare musica ha ceduto il passo, anche grazie alla tecnologia, alla facilità di mettere insieme quattro note e di confezionarle in modo che possa sembrare musica» racconta. «Non si fa più musica per lasciare qualcosa ma per diventare famosi. La musica popolare è stata una scienza basata sulla ricerca, sulla profondità emotiva e sulla diversità artistica. Ora è il trionfo della superficialità, si ricicla male nel nome del sentito dire e del copia-e-incolla. Non si offrono al pubblico contenuti, ma rumore».
