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Arcangeli, il critico «criticato» da Morandi

Un documento epistolare mai apparso. La firma di Panorama anticipa un messaggio bolognese. Oggetto: la monumentale monografia dello studioso che l’artista non accettò.

Finì male fra Giorgio Morandi e Francesco Arcangeli. Il libro del grande storico dell’arte sul pittore bolognese, che è oggi la principale, più estesa e più densa monografia sull’artista, era stato commissionato dal mercante d’arte Gino Ghiringhelli de Il Milione, storica galleria milanese, e il nome del critico l’aveva indicato lo stesso Morandi. Il libro appare una sorprendente lettura dell’opera del pittore e una storia documentata e argomentata del Novecento europeo e americano, con una rete di riferimenti e confronti in cui Morandi è protagonista, anche involontario. Una ricostruzione storica formidabile alla luce di una visione critica complessa e integrata, con giudizi profetici e sentenze implacabili.

Alla lettura del testo insorsero, fra i due, incomprensioni, e l’esito fu catastrofico. Il libro non uscì, e le belle illustrazioni a colori, quadricromie accuratissime, furono pubblicate in un maestoso volume introdotto da Lamberto Vitali. Cosa era accaduto? Morandi iniziò a leggere il testo nel settembre del 1961 e scoprì un Arcangeli così polifonico, anche se non inatteso, da costringerlo, con fastidio, a una serie di osservazioni sul dare e l’avere, con riferimento ai critici precedenti e agli altri artisti citati e posti in relazione con la sua pittura. Nelle lettere che si scambiarono Morandi e Arcangeli nel novembre 1961, emerge il contrasto: «Le faccio presente come tutto quanto Lei scriverà si potrà ritenere, e con ragione, come pienamente da me approvato»; affermazione alla quale Arcangeli oppone fermamente di non poter rinunciare alle sue idee: «Altrimenti la critica non distinguerebbe più niente, standosene, anzi appendendo l’artista in mezzo al cielo, entro un inno indiscriminato».

Ne diamo un esempio luminoso, in purezza: «Essa è già pronta (forse sul filo dei passeggi quotidiani di Morandi, tra le stanze e il giardino, nelle ore più sole, anzi più desolate) a prestare il suo ritmo, in effigie quasi raffaellesco, alla muta accolta di oggetti della Natura morta della raccolta Jesi, capolavoro di imperturbabile, e pur profondamente emozionante atonia ottica e sentimentale. Un triste ma supremo colore di miele, d’oro, di rame, imbeve tutto delicatamente e con raccolta densità, uguagliandosi in un’area visiva così perfetta, così umilmente regale, e quasi altera, da non temere confronto».

A Morandi non bastò, non voleva entrare nella storia ricostruita da Arcangeli che aveva concentrato nella monografia il suo metodo, e la sua visione critica, dai tramandi, ai grandi maestri di inizio secolo, da Picasso a Derain, agli informali, all’arte contemporanea americana, a Gli ultimi naturalisti. Il libro su Morandi fu concepito come un’autobiografia di Arcangeli, rispondendo a una visione esclusiva e personalissima dell’arte.

Morandi è protagonista e coprotagonista di 50 anni di pittura. Parlando di lui Arcangeli scrive la sua storia dell’arte del Novecento. La storia dell’arte non può essere disgiunta dalla critica d’arte che è un’esperienza esistenziale. Un pensiero confermato nel discorso del 1969, in occasione del conferimento del Premio Feltrinelli, quando Arcangeli dichiarò di voler «far coincidere in me stesso la storia dell’arte e la critica d’arte». Morandi mal sopportava gli accostamenti di Arcangeli a Dada, Picasso, Permeke, Mondrian, Wols, Fautrier, Pollock, Dubuffet, De Kooning, Burri, fino a Morlotti, Mandelli, Moreni… Resta comunque interessante confrontare i dipinti di Morandi con quelli di alcuni degli artisti richiamati da Arcangeli; con Permeke, con Soutine o con De Staël.

In verità nel suo testo Arcangeli si muove sempre con grande sensibilità, e - al contrario di quel che gli rimproverava l’artista - senza mancare di rispetto verso gli altri critici (specie Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan, che rispetta e con cui si confronta); le sue parole - come lui stesso fece notare a Morandi - non suonano mai irriverenti. Fu un vero trauma, un dramma, per una profonda incomprensione da parte di chi non era mai stato così compiutamente compreso come da Arcangeli. Il quale scrive: «Spero che questa vicenda si concluda presto (in un modo o in un altro), perché dopo quasi dieci anni passati con il libro su Morandi da fare, quasi a chiusura dell’orizzonte; dopo quasi due anni di fatica e di sacrifici; adesso sono venuti, a conclusione, questi sei orribili mesi, in cui ho subito una sorta di processo alle intenzioni veramente sfibrante. Nessuno aveva mai sospettato della mia buona fede come Morandi ha saputo fare. Pazienza».

Il paradosso è in questa ribellione del «testo» all’autore, fino al punto che Morandi decise con dolore, e con sollievo, di ricusare la pubblicazione del libro; non poteva accettare, scrisse, di «essere il padre dell’Informale». Osserva Pompilio Mandelli: «Accolto con la frase “andiamo sempre di male in peggio”, Arcangeli ha l’impressione di trovarsi di fronte a un antico inquisitore, pronto a celebrare un esasperante processo. Morandi lesse da un quaderno scolastico innumerevoli appunti e tante erano le osservazioni e i commenti, che nessuna pagina del testo sembrava dovesse salvarsi. Momi sudava, gli tremavano le gambe, mentre Morandi con voce piuttosto dura affermava: “Non darò mai il permesso di pubblicare il suo scritto”».

La vicenda è puntualmente ricostruita da Luca Cesari che, qualche anno fa, pubblicò (Allemandi, 2007) la seconda stesura integrale della travagliata e censurata monografia che era comunque pietosamente stata editata (con abbondanti tagli) dal Milione nel 1964, quasi senza illustrazioni, 40 giorni dopo la morte di Morandi, in una diversa collana, «declassata da testo critico a testo letterario» (Donati).

Frattanto la critica dell’epoca si era schierata, in larga misura in favore di Morandi. Il rischio del metodo di Arcangeli era considerato quello di spostare l’attenzione dalla qualità o specificità morandiana al contesto storico lungo e complesso, con molti protagonisti a confronto, come osserva Roberto Longhi (in una lettera del 10 aprile 1962) concludendo che lo studio di Arcangeli (suo amato allievo) è «troppo spesso soffocato dalla eccessiva ambientazione», ossia da una congerie di riferimenti disparati, talora pungenti e sconcertanti, «a dir poco aleatori» (Parronchi). Da questa «lotta» Arcangeli uscì letteralmente sconvolto, fino al limite della follia e del tentato suicidio, come si legge in una tarda lettera alla sorella del pittore, Dina, il 2 febbraio 1969.

Scrivo di questa amara vicenda perché il destino mi ha posto nelle condizioni di conoscere l’epistolario (ancora inedito) di Arcangeli con una donna lungamente (dal 1943 al 1972) e disperatamente amata, Gabriella Festi. Le lettere, in dialogo con gli eredi, saranno pubblicate per il cinquantenario della morte di Arcangeli dalle edizioni Pendragon. Sono un documento fondamentale per comprendere a fondo l’anima di Arcangeli. E, proprio per la storia-chiave del libro su Morandi, ci consentono di conoscere il primo avvertimento, già doloroso, delle contrarietà del pittore, nel settembre del 1961,con una ricostruzione in tempo reale degli affanni e dei sensibilissimi turbamenti di Arcangeli. È una lettura spinosissima. Eccola.

«Bologna, sabato mattina, 24 settembre 1961

“Amado mio”,

ti scrivo, credo, dopo tre giorni in cui m’era stato praticamente impossibile farlo: tre giorni davvero opprimenti, e per l’eccesso del lavoro, e per la noia morale di certi avvenimenti. Primo, il mio libro, che certo andrà in porto; ma Morandi (che evidentemente ha ormai manie senili) mi amareggia questa pesante fase conclusiva di questa grossa fatica con le sue semi bizze; d’altra parte mi ha scelto lui, ed ha il diritto morale di legarmi le mani, e io sono in grado di difendermi solo a mani legate. Dopo che, la settimana scorsa, leggemmo insieme quelle trenta pagine, adesso (cioè ieri, a Grizzana), dopo avermi lasciato spedire a Milano quelle trenta pagine, ha cominciato a dire che non aveva dormito la notte perché io avevo parlato troppo male di Derain nei suoi confronti, e allora chissà cosa diranno i francesi. Ho già capito che di qui alla fine della lettura (e dovrà leggere ancora quasi 250 pagine) sarà tutta una alternativa fra punti in cui penserà che gli è stato dato troppo (o fingerà di pensare?) e punti dove, o per vecchie antipatie o per giudizi divergenti da me (è augurabile che non abbiamo le stesse idee su tutto, altrimenti non lui ma io sarei fregato), penserà che ho dato troppo ad altri, soprattutto italiani. Insomma, non c’è da stare allegri; dopo la faticata tremenda che avevo fatta in questa estate implacabile avrei avuto il diritto d’un po’ di respiro. L’unica fortuna è, per ora, il persistente e quasi smoderato entusiasmo di Ghiringhelli per le mie prime settanta pagine; e speriamo che Morandi almeno tenga tutti i suoi mugugni abbastanza fra lui e me, e non smorzi Gino, altrimenti non dico che il libro non uscirà, ma uscirebbe in un’aria un po’ funebre che sento di non meritare. In ogni caso, pur essendo legato dal fatto che Morandi mi ha scelto (circostanza, purtroppo, fondamentale, e che io non debbo mai dimenticare) difenderò a denti stretti la sostanza del mio libro, e potrò fare a Morandi solo qualche concessione marginale. Per fortuna continuo, a esser su moralmente, e cercherò di difendermi bene; perché il pericolo più grande è che Morandi ieri ha dichiarato che lui ha bisogno soprattutto di stare in pace, e che il libro esce praticamente vicino a lui, e che se ne sente moralmente corresponsabile. Questa è la cosa più rischiosa di tutte. In ogni caso, pur non facendo, prima, nessuna previsione rosea, non mi aspettavo arrivasse fino a questo punto di rassismo (sic) e di egoismo. Nessuno lo ha mai tenuto responsabile di quel che hanno scritto Brandi o Gnudi o non so chi su di lui; mentre ora comincia a dire e a parlare come se quello che scrivo io, che è firmato da me, dovesse essere, controfirmato da lui. Perdonami questo sfogo, so benissimo che in paradiso in carrozza non ci si va, però certo vedo sempre più chiaro che, fra vecchi superuomini ed egoisti, e giovani per la maggior parte dritti e poco umani, noi della nostra età, i pochi che si battono per fare sul serio, per portare avanti qualche cosa di umano e di vero avranno la vita molto dura (...). Ti scriverò anche domani, cerca di star bene, goditi il bel tempo, ti bacio e ti abbraccio tanto,

tuo Momi».

Da qui comincia la fine di un libro.

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