Solo un’alimentazione nostrana mette al riparo dalle patologie non trasmissibili che derivano dal consumo di cibo. Lo dice uno studio che rivela quanto invece i cibi ultra processati impattino sulla salute. Un’altra prova a favore di ciò che natura e tradizione offrono in Italia.
mensa autarchica per salvarsi la pelle. È questo, in estrema e molto volgarizzata sintesi, il messaggio che si ricava da uno studio approfondito di Aletheia, il gruppo di ricerca che mette insieme i migliori scienziati italiani applicati alle patologie non trasmissibili partendo proprio dall’alimentazione, il quale ha cercato di indagare se e in che misura l’incidenza di cibi ultraprocessati e di alimenti prodotti in laboratorio possa danneggiare lo stato di salute. Se ne ricava che solo la dieta mediterranea ci mette al riparo. Lo assicurano due medici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma - Antonio Gasbarrini, professore di Medicina interna e preside della facoltà di Medicina e chirurgia, e Pauline Celine Raoul, nutrizionista clinica - confortati da un insigne ematologo dell’università di Bologna, il professor Claudio Franceschi. Insieme hanno coordinato il lavoro di un gruppo di ricerca composto da Riccardo Fargione, Felice Adinolfi, Roberto Capone, Vito De Filippo, Valentina Conti, Mattero Sotgiu e Carmela Riccio.
E qui l’attualità irrompe. Perché è di queste settimane una polemica lanciata da Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia, con Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, su «Mediterranea» una sorta di marchio-associazione che fa capo a Unione Food e Confagricoltura. Sostengono Scordamaglia e Prandini che Mediterranea non ha titolo per appropriarsi della comunicazione di questo regime alimentare perché nel suo seno ci sono molte multinazionali che producono cibi ultraprocessati, che appoggiano l’etichetta a semaforo Nutri-score «inventata» dall’epidemiologo francese Serge Hercberg, che sono più le aziende farmaceutiche e che producono integratori di quelle che si occupano del cibo italiano. Ermete Realacci - ambientalista della prima ora e presidente di Symbola, la fondazione che si occupa delle eccellenze italiane - ha bollato Mediterranea come «italian sounding».
Viene dunque voglia di capire che cosa significa davvero dieta mediterranea e quanto la percezione e la pratica attuale di quel regime alimentare sia distante dagli studi che Ancel Keyes - il creatore della mitica «razione K» - condusse nei prima anni Cinquanta tra Acciaroli e Pollica dove c’è il museo della dieta mediterranea e dove in Cilento si sono appena concluse le giornate del Mediterraneo.
Ebbene la ricerca di Aletheia chiarisce che quando si parla di dieta non entrano in gioco solo gli alimenti o, meglio, gli elementi nutrizionali, ma va valutato complessivamente il rapporto col cibo, il come, il quanto e con chi si mangia. E allora emerge che l’attenzione deve essere spostata - come peraltro ha fatto l’Unesco dichiarando la dieta mediterranea patrimonio dell’umanità - sullo stile di vita, ma anche sul modo di produzione dei cibi. Sostengono i ricercatori nel dossier «i rischi di modelli nutrizionali errati e i benefici della dieta mediterranea» che bisogna ricordarsi che «la salute nasce a tavola perché ormai è provato che l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari, i tumori, la steatosi epatica non alcolica, le malattie croniche intestinali, le malattie neuropsichiatriche le malattie neurodegenerative sono strettamente connesse a stili nutrizionali errati».
In Italia grazie anche a un’adesione - che purtroppo si fa sempre più blanda - alla dieta mediterranea, l’incidenza di queste malattie è un po’ più bassa, ma si rischia di scivolare proprio per la pressione di marketing esercitata da chi produce cibi ultra processati - dalle merendine agli integratori passando per molti cibi presunti vegani e il falso light - verso una degradazione della salute. Osserva il rapporto di Aletheia: «Secondo i dati Istat, nonostante l’Italia presenti valori migliori per quanto concerne il tasso di obesità, pari al 12 per cento, nel 2023 l’eccesso di peso (ovvero il sovrappeso più obesità) interessa il 46,4 per cento della popolazione di maggiore età. Negli Usa sale al 67,5. Il quadro non sembra rassicurante neanche nelle fasce di età più basse, ovvero per bambini e adolescenti dai 3 ai 17 anni».
Secondo l’Oms gli obesi hanno un rischio di morte superiore del 30 per cento rispetto ai normopeso e i grandi obesi si accorciano la vita di 15 anni, peggio di chi fuma accanitamente. Del resto Hans Kluge, direttore regionale Europa dell’Oms, in un recente rapporto ha ribadito che «le malattie non trasmissibili sono responsabili dell’80 per cento delle patologie nei Paesi dell’Ue e sono le principali cause di decessi prematuri evitabili». Dunque ha ragione chi dice niente vino, niente carne rossa, niente dolci e mette sotto accusa proprio il made in Italy alimentare?
E ancora ha ragione la Food Foundation - sponsorizzata dal World Business Council for Sustainable Development che raggruppa i giganti dell’energia decisi a sottrarre terra ai contadini per farne centrali di pannelli e pale eoliche - che vuole imporre la dieta basata su pochissimi elementi e indifferenti al luogo e al modo di coltivazione? Aletheia dice esattamente il contrario. È necessario avere una dieta bilanciata e variata tra carboidrati, proteine e grassi che segua la stagionalità, che sia composta quanto più possibile da prodotti freschi e con pochissimi ingredienti. Nulla di vietato, tutto di misurato. Secondo gli esperti di Aletheia il «chilometro zero», il nutrirsi privilegiando vegetali, cereali non raffinati, grassi monoinsaturi come l’olio Evo, il non eccedere nell’apporto proteico, ma senza demonizzarlo, sono gli elementi base.
Osserva il dossier che i prodotti italiani sono i «più controllati dalle autorità europee (oltre 11.300 campioni analizzati), davanti a quelli francesi (circa 10 mila) e tedeschi (poco meno di 8.700) con risultati che sono lo specchio della garanzia dei metodi produttivi del nostro Paese: il 99,25 per cento dei prodotti italiani non presenta residui di fitofarmaci oltre i limiti di non conformità».
La dieta mediterranea, come sostiene il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, comincia con la difesa e la diffusione del made in Italy. Anche per una ragione di convenienza. Lo studio ha fatto i conti di quanto incidono le malattie non trasmissibili sulle finanze pubbliche. In Europa le malattie cardiovascolari costano 111 miliardi di euro, i tumori 97, il diabete - in forte ascesa in Italia con un aumento del 65 per cento di malati negli ultimi vent’anni - 167,5 miliardi. Va rilevato che il 55,5 per cento dei decessi è per ragioni cardiache o oncologiche e tra i tumori quelli del tratto digerente risultano quelli a più alta incidenza e mortalità. C’è una correlazione tra queste patologie e il mangiar male tant’è che «complessivamente per coprire i costi del sovrappeso ogni italiano paga 289 euro di tasse l’anno».
Converrebbe certo spendere di più per mangiare meglio. In fin dei conti questa è la conclusione degli studiosi: mangiare italiano, fresco, di qualità e secondo stagione con l’accortezza di bilanciare i nutrienti (i carboidrati meglio se non raffinati in ragione del 40 per cento, i grassi e le proteine da non dimenticare) e di muoversi un po’. Gli studiosi di Aletheia pongono anche un altro elemento: l’informazione. Tenere corsi sull’alimentazione nelle scuole, puntare sull’etichetta di origine e sulle informazioni chiare al consumatore. E qui torna una battaglia di Coldiretti e del nostro governo contro il Nutri-score. La ragione è semplice: l’etichetta a semaforo non tiene conto se i cibi siano o o no ultra processati, non si occupa degli additivi chimici, non bilancia le quantità. A tal proposito è utile uno studio condotto dal medico Chris van Tulleken che nel suo Cibi ultra processati (Vallardi) mette al bando proprio il Nutri-score.
Come osserva Giuseppe Caprotti, già a lungo in Esselunga (oggi tiene un ottimo siti di informazione alimentare): «Lo si vede dal voto – B (il secondo miglior voto) – che ha ottenuto la pizza ai bastoncini di pesce che, con il Nutri- score diventerebbe sana».
La ragione? La illustra proprio Van Tulleken: «Un buon quarto dei cosiddetti alimenti di alta qualità sono cibi ultra processati, a base vegetale e riformulati per avere un basso contenuto di grassi, zuccheri e sale. È possibile che i dolcificanti artificiali a basso contenuto calorico premiati dal Nutri-score contribuiscano all’aumento di malattie metaboliche come il diabete di tipo 2 nel mondo. Spero sia ormai chiaro che assegnare un colore verde acceso a una bevanda dietetica sia un fuori luogo».