In un Paese (e in una regione) funestato dalla fuga di laureati; in cui la produttività del lavoro è ferma da vent’anni e il livello degli stipendi continua a precipitare nella graduatoria europea; in cui convivono – quasi misteriosamente – un accesso al mondo del lavoro umiliante e sottopagato e l’impossibilità per le imprese di trovare manodopera; in un Paese (e in una regione) in queste condizioni, l’ultima cosa da fare è ridurre le risorse per l’Università, che è come azzoppare il futuro delle giovani generazioni.
Eppure è questo quanto sta per accadere, come hanno appena denunciato i rettori italiani, in aperta polemica con la ministra dell’Università Anna Maria Bernini.
In gioco c’è una riduzione di circa mezzo miliardo del cosiddetto finanziamento ordinario (quello per le spese di funzionamento e le attività istituzionali). Per le Università di Trieste e di Udine, ciò comporterebbe una sforbiciata di circa undici milioni complessivi.
Risparmiamo al lettore il balletto delle cifre (formalmente in eccesso ma sostanzialmente corrette, poiché una parte di fondi extra dovranno ora rientrare in quello ordinario).
Probabilmente l’esito del braccio di ferro sarà alla fine meno gravoso, anche grazie alla presa di posizione dei rettori.
Ma a sconcertare è il principio in sé. L’Italia sconta una grave arretratezza nel sistema della formazione. Spendiamo circa il quattro per cento del prodotto interno per l’istruzione (terzultimi in Europa davanti a Grecia e Irlanda), e solo l’uno e mezzo per l’Università (contro una media del 2,3 per cento).
Siamo penultimi nel continente per laureati in rapporto alla popolazione (17 per cento contro il 40 per cento della Gran Bretagna). Ogni anno più di trentamila neolaureati se ne vanno all’estero: formiamo (con dispendio di risorse pubbliche) giovani medici che saranno apprezzatissimi negli ospedali di Londra, ove giungeranno “gratis” già formati in Italia.
Il sapere è oggi l’unico vero valore – esistenziale prima che economico – su cui investire per icittadini di domani, e non certo un ramo secco da decurtare.
Il sistema dell’Università italiana ha delle pecche enormi: nepotismo, autoreferenzialità, ossificazione rispetto alle esigenze che mutano, allergia snobistica al rapporto con le imprese, malinteso senso di difesa della “purezza” scientifica a fronte delle contaminazioni che il mondo del lavoro impone.
Ma la soluzione a simili incrostazioni sta nell’intensificare lo slancio riformatore timidamente avviato nell’ultimo decennio, e non certo nel taglio dei viveri.
Ciò vale a maggior ragione per gli atenei di Udine e Trieste (del quale, doverosa trasparenza, chi scrive è consigliere di amministrazione), che da più di quindici anni – anche sulla spinta della Regione – hanno avviato un percorso virtuoso su due cardini fondamentali: il superamento di campanilismi ridicoli (con corsi duplicati a poche decine di chilometri di distanza) e una stretta relazione con il mondo delle imprese e l’orientamento degli studenti, che non a caso ci rendono una delle regioni leader in Italia per tasso di occupazione dei neolaureati.
Talvolta la tentazione dei doppioni riemerge (come il master in business administration a Udine, concorrente del Mib supportato dalla Confindustria friulana in opposizione a quella giuliano-pordenonese), ma non è certo più come in passato, quando mancava solo che si aprissero l’agraria a Trieste e le scienze assicurative a Udine. E non siamo la sola regione ad aver migliorato qualità e servizi, tutt’altro.
Oggi i pericoli di decadimento nel Paese vengono semmai dal pullulare di pseudo-università on line. Ulteriore motivo per cui il taglio dei fondi sarebbe una scelta di rara miopia. —
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