È banalmente palese che in Italia e nella scuola e dai pulpiti, da decenni dilaga un gramscismo di sinistra: conquistare la cultura e la mentalità per conquistare il potere. Nel 2024, la sinistra è in netta minoranza alle urne, segno che il gramscismo è fallito. Certo che se votassero solo gli intellettuali ufficiali piagnoni pagati, e i radical chic con tre cittadinanze e sei lauree, i gramsciani stravincerebbero anche nelle assemblee di condominio: purtroppo per loro votano tutti, ad onta dei raffinati nostalgici del consociativismo anni 1980, e i numeri sono numeri. E, numeri alla mano, i quali sono venuti quasi da soli, o a causa della politica militante e non della cultura, non serve un gramscismo di destra: o almeno non serve ai numeri, che ne fanno allegramente a meno come non danno retta a quell’altro.
Mentre le urne popolari danno la vittoria alla destra non solo nella Nazione ma anche all’interno del destracentro, continua però a regnare il gramscismo di sinistra, anche se in edulcorata versione di centrosinistra o anche solo centro. E una cultura di destra?
Ma cosa dico? Semplicemente, cultura.
Cerco di spiegarmi con degli esempi. La Divina Commedia, gioachimita nella Fede, è squisitamente politica in senso aristotelico e tomistico: “Di quell’umile Italia fia salute…” già nel canto I, auspicando l’autorità dell’Impero come si legge dovunque, e non c’è alcun bisogno di arzigogolare. Se invece il gramscismo di sinistra, o “critica militante”, deve iscrivere a forza il Leopardi al socialismo, deve sciropparsi migliaia di pagine dello Zibaldone in cerca di qualche frase, e un fugace cenno della Ginestra per trovare vaghi cenni che, stiracchiati, dovrebbero intruppare il conte Giacomo in vaghe ideologie persino progressiste. Se invece uno vuole semplicemente leggere il Leopardi, lo troverà quello che fu: un profondo grecista, erede dell’esistenzialismo dei poeti greci arcaici e tragici, come qualche decennio dopo sarà Nietzsche. E la politica? La lasciamo a Dante, e, attenti, “diversamente per diversi uffici”, il che non è certo una dichiarazione di democrazia.
Dunque, nemmeno bisogna sforzarsi di creare una cultura di destra, e basta una cultura. Finora, urne e numeri a parte, che, ripeto, vanno per conto loro, non abbiamo visto un film o letto un romanzo o ascoltato una canzonetta che non abbiano dovuto pagare il dazio alla cultura e al linguaggio di centrosinistra: esempio, il film che ha arruolato i sommergibilisti nelle Ong; per altro, un fallimento al botteghino, e volevo pure vedere! E non parliamo della Rai sul 25 luglio, tra immotivate ignude epidermidi e vari altri vilipendi alla realtà. E invece servirebbe a tutti, comunque la pensino, raccontare la storia.
La storia non è l’apologia di nessuno e di nessuna opinione, e nemmeno un aprioristico generico pianto, è solo la storia: cioè, esempio, ammirare Cesare per la conquista della Gallia e poi leggere Catullo circa il mangia mangia in Britannia; è diciamo pure che furono vere entrambe le cose. Prima o poi, sempre ad esempio, qualcuno dovrà spudoratamente raccontare che successe davvero in Italia tra il 1914 e il 1945; e attraverso la storia personale di qualche italiano. Ecco un bel film, per il quale occorrerebbero un soggetto, una sceneggiatura, degli attori, un regista, e alla fine della vendemmia un produttore capace di reperire soldi e guadagnarli nei cinema. Vedrebbero, gli spettatori, un film, non un film di destra o di qualsiasi altro segno. Ah, lo stesso per quel che accadde attorno al 1860, al quale proposito si raccontano inverosimili fandonie di un certo successo, però quasi nessuno spiega i crudi fatti.
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