La vicenda di Satnam Singh, lasciato morire senza soccorso nelle campagne di Latina, è solo un aspetto del problema del «caporalato» in agricoltura. Da Bologna a Foggia le inchieste raccontano come, a sfruttare le persone arrivate clandestinamente da Asia e Africa, siano spesso connazionali dei lavoratori. In una crescente, agghiacciante perdita di umanità.
Sono lupi travestiti da agnelli. Spremono il sangue dei connazionali facendo affari sulla pelle dei poveri cristi arrivati fin qui dai confini del mondo. Li abbracciano per accoltellarli meglio.
La narrazione dei «migranti brava gente» si schianta, come una nave di legno marcio, contro gli scogli dell’avidità e della ferocia. L’omicidio di Satnam Singh, morto dissanguato dopo aver perso un braccio tranciato dal macchinario di un’azienda agricola, a Latina, ha segnato un nuovo livello di orrore: il lavoratore clandestino «usa e getta». L’arto buttato nell’immondizia, e lui in agonia lentissima scaricato davanti a casa come un manichino monco. Ma ha anche costretto a puntare il cannocchiale sul lato oscuro della Luna. Basta sfogliare le carte delle ultime inchieste giudiziarie per rendersi conto che i più spietati aguzzini dei campi sono spesso proprio i rifugiati. Due facce della stessa medaglia: l’immigrazione senza freni e la retorica dei porti aperti.Condizione che unisce Nord e Sud.
A Foggia due africani reclutavano manodopera straniera a bassissimo costo tra i disperati della baraccopoli di Borgo Mezzanone pagandoli 56 centesimi per ogni cassetta di pomodori caricata sul furgone. «Muovetevi bestie, siete solo dei ricchioni», insultavano i kapò in caso di ritardo nelle consegne. Il giudice per le indagini preliminari parla di «continuo stress psicofisico» sottolineando che i manovali vivevano in case senza «acqua potabile, luce e servizi igienici». Sempre africani erano i sette carcerieri che, a Matera, gestivano un battaglione di 140 esiliati costretti a spezzarsi la schiena per Cinque euro all’ora, tutti i giorni. Domeniche comprese. Agli sfruttatori le vittime dovevano riconoscere, inoltre, tre euro al giorno per dormire in catapecchie fetide e quasi seimila euro di tangente per ottenere e mantenere il «posto». Soldi che, quasi sempre, venivano scalati dai compensi già miserevoli.
Stesso scenario a Piacenza dove il boia vestiva i panni di un affabile mediatore culturale bengalese che, in combutta con altri due egiziani, ha fatto dormire i mezzadri in stanze anguste, infestate di topi, anche durante l’emergenza Covid. A Gorizia i pubblici ministeri hanno indagato, invece, su tre romeni e un moldavo che, frusta alla mano, tenevano in scacco 30 operai ortofrutticoli, tra cui due minorenni. Un terzetto di pakistani, viceversa, ne controllava oltre 150 a Ferrara mettendoli a disposizione di 18 aziende di varia natura; così come a Novara, dove alcune ditte agricole aveva accumulato un piccolo tesoro emettendo fatture false per oltre tre milioni di euro grazie alla compiacenza di un paio di carnefici che si erano fatti carico di azzerare i costi della manodopera straniera. Moldavo era inoltre il caporale che si occupava, a Vicenza, di far entrare in Italia decine di concittadini spacciandoli per romeni grazie a documenti falsi fabbricati in patria.
A Bologna, gli «schiavi» venivano invece ingaggiati da società di facchinaggio e spedizioni per conto di 20 caporali pakistani, tre dei quali diventati da poco cittadini italiani. I «carcerieri» non solo pagavano pochi euro, ma spesso taglieggiavano i lavoratori trattenendo parte dei compensi a titolo di partecipazione alle spese per trasporto e alloggio.
A Livorno, poi, due fratelli di Islamabad imponevano turni di lavoro da 10 ore, sette giorni su sette, per cinque euro all’ora facendosi pagare, dai disgraziati connazionali, pure 150 euro al mese per alloggi fatiscenti in cui mancavano addirittura le finestre. Ancora sulla costa tirrenica: a Piombino la gang di schiavisti era composta da altri dieci pakistani che facevano «acquisti» nel centro di accoglienza Le Caravelle, in località Riotorto. Il «salario» era fissato a 0,97 euro all’ora per raccogliere olive, ortaggi e uva.
Peraltro, hanno scoperto gli investigatori, non sempre i pochi spiccioli venivano effettivamente corrisposti, se non dopo attese anche di due o tre mesi. I turni non duravano mai meno di 10 ore al giorno, con qualsiasi tempo. In un’intercettazione, scrivono ancora gli inquirenti, «mentre da un interlocutore si percepiva la preoccupazione per la raccolta di ortaggi nei campi dopo le forti piogge, dall’altra la risposta era stata: «I nostri li mandiamo a piedi scalzi, così non c’è il problema che rimangano impantanati con le scarpe».
Le statistiche parlano di 230 mila stagionali fantasma nei campi con un quarto degli occupati donne (circa 55 mila). Di fronte a questi numeri gli strumenti di lotta non possono essere solo le marce di protesta per la legalità come quella inscenata dalla comunità indiana di Latina, a cui apparteneva Singh. Occorrono provvedimenti incisivi da parte della politica.
«A Latina è stato commesso un crimine disumano, intollerabile sotto ogni punto di vista, che ha evidenziato un quadro di irregolarità diffusa» dice a Panorama il sottosegretario al ministero del Lavoro, Claudio Durigon. «Il governo, però, ha appena approvato un emendamento in Commissione: andremo a inserire 514 nuovi ispettori Inps e Inail. Più controlli significa più sicurezza. Siamo consapevoli che questi strumenti non risolveranno il problema nel breve periodo. Per questo sarà cruciale il Tavolo sul caporalato aperto al ministero del Lavoro con le parti sociali».