Sono tra i 18 attivisti solidali con la Palestina indagati per i fatti del 13 febbraio 2024, quando davanti agli studi della Rai di Napoli le forze di polizia caricarono a più riprese i manifestanti che protestavano contro la censura della tv pubblica, costringendo più d’uno a ricorrere alle cure ospedaliere.
In quattro sono oggetto di misure cautelari: obbligo di firma trisettimanale. Le accuse sono di resistenza e lesioni. Addirittura la pm aveva chiesto il divieto di dimora nella Regione Campania per tutti i 18 indagati.
È il segno di un Paese “patas arriba”, come avrebbe scritto Eduardo Galeano. Un Paese “sottosopra”, in cui se denunci il genocidio israeliano in Palestina rischi censura e misure repressive; se invece ne sei complice sei libero di agire indisturbato.
Proviamo a rimetterlo sui piedi.
Il 13 febbraio arrivava a 72 ore da quando, dal palco dell’Ariston, Ghali aveva pronunciato per bocca di Rich Ciolino la parola tabù: genocidio. Considerata l’impossibilità di una censura preventiva – Ghali era intervenuto in diretta – la Rai aveva agito ex post. Mara Venier aveva letto la lettera dell’amministratore delegato Rai Roberto Sergio, che si scusava con Israele e si dissociava da quanto affermato durante il Festival.
Il 13 febbraio definivamo la Rai “scorta mediatica” del genocidio israeliano a Gaza.
Cinque mesi dopo, la tv pubblica continua nel suo ruolo. Come nel suo Gaza, la scorta mediatica scrive Raffaele Oriani, il giornalista dimessosi dal “Venerdì di Repubblica” denunciando che il “massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi”, il TG1 continua a non ammettere il racconto “della responsabilità israeliana. Il risultato spesso è surreale, con bombe che piovono, combattimenti che divampano, tragedie che capitano”.
Non diversamente dal TG2 che il 17 marzo ancora affermava che “cadono le bombe”.
I principali quotidiani italiani non sono da meno. All’indomani della “strage del pane” (o “strage della farina”) del 29 febbraio, l’edizione cartacea de La Repubblica presentava un titolo di spalla in prima pagina: “Oltre 100 morti a Gaza. Erano in fila per il pane”. Morti? Come sono morti? Chi li ha uccisi?
È importante scriverlo, dirlo, urlarlo. Per provare a rimettere il Paese sui suoi piedi. E per affermare che il giornalismo è tale quando è watchdog (“cane da guardia”) del potere, non quando ne diviene lo scudo.
Il potere mediatico non è l’unico complice del genocidio.
Il complesso militare-industriale – citato anche nelle carte dell’inchiesta napoletana – gioca un ruolo di primo piano. A ottobre 2023 il ministro Crosetto aveva affermato che l’Italia aveva smesso di fornire armamenti a Israele. Peccato sia stato smentito dalla stessa Istat, che ha riportato i valori di armi e munizioni inviati a Tel Aviv anche dopo l’ottobre ‘23. A trarne profitto – letteralmente – sono imprese come Fiocchi Munizioni, nella cui proprietà compare anche un europarlamentare di Fratelli d’Italia a cui, sui cartelloni elettorali, piace farsi ritrarre con fucili o con alberi di Natale addobbati con pallottole. Ma soprattutto come Leonardo, il colosso militare italiano.
Il tutto mentre è ancora in vigore una legge dello Stato, la 185/90 – non a caso sotto attacco – che vieta la fornitura di armi a Paesi in guerra. Qualcuno sta chiudendo tutti e due gli occhi?
Infine il potere politico. Complice di Netanyahu in ogni sede diplomatica. Ma non solo. Perché la solidarietà con la Palestina non significa semplicemente “aiutare” un popolo vittima di un massacro in un altrove geografico. La solidarietà con la Palestina sta mettendo in evidenza i limiti alla nostra stessa libertà. Qui, nel Vecchio Continente che si vanta di essere la culla della civiltà e della libertà.
La repressione non si dispiega solo a colpi di manganello. E nemmeno solo con i provvedimenti del potere giudiziario contro chi osa lottare contro il genocidio a Gaza. Ma anche con cambiamenti normativi. L’ultradestra sta infatti avanzando rapidamente verso una trasformazione in peius. Un esempio su tutti: a gennaio la Lega ha depositato una proposta di legge che permetterebbe di vietare manifestazioni pro-Palestina con la scusa dell’antisemitismo. L’antisemitismo reale, quello che cioè alberga in casa dei loro alleati, pare non lo vedano.
È chiaro che un simile provvedimento non attaccherebbe solo le proteste in solidarietà con la Palestina, ma costituirebbe un precedente pericolosissimo nell’ottica di un attacco più complessivo alla libertà di espressione, di parola, di manifestazione. Cioè al sale della democrazia.
Sono queste complicità che abbiamo denunciato lungo la conferenza stampa del 18 luglio davanti alla Rai. Il nostro è un atto di accusa contro chi rende possibile il genocidio israeliano: potere politico, economico e mediatico. Sono loro che dovrebbero essere sul banco degli imputati, non certo chi difende la vita, l’esistenza e il futuro del popolo palestinese e le nostre stesse libertà.
L'articolo Sono indagato per le proteste contro la censura Rai del genocidio a Gaza: siamo un Paese sottosopra proviene da Il Fatto Quotidiano.