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L’editoriale. La riproposizione (peggiorata) dell’uguale: ecco perché quel «no» è un atto profondamente europeo

L’ammucchiata che ha permesso il bis di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue rappresenta plasticamente l’unione di tre debolezze (gli sconfitti delle Europee: liberali, socialisti e Verdi) più un Ppe lacerato e bifronte. Ma soprattutto la “neo” maggioranza Ursula è partita con un handicap clamoroso: salvata nella culla solo grazie alla stampella […]

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L’ammucchiata che ha permesso il bis di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue rappresenta plasticamente l’unione di tre debolezze (gli sconfitti delle Europee: liberali, socialisti e Verdi) più un Ppe lacerato e bifronte. Ma soprattutto la “neo” maggioranza Ursula è partita con un handicap clamoroso: salvata nella culla solo grazie alla stampella determinante dei Verdi, soccorso giunto ufficialmente poco prima del voto e sublimato con l’indicazione del Green deal come elemento cardine «dei primi cento giorni». Morale? Sia dal punto di vista algebrico che da quello strettamente politico la nuova presidenza si presenta come la negazione del messaggio giunto dalla stragrande maggioranza dei cittadini europei. Sì, è l’esatto opposto: qualcosa fra la beffa e la provocazione.

Con un cartello del genere, e un’agenda orientata dall’elemento più controverso e odiato dalle opinioni pubbliche continentali, risulta chiaro e intellegibile agli elettori (al contrario, ca vans dire, del grosso dei commentatori) il «no» giunto dalla delegazione di FdI-Ecr e dalla Lega. Una scelta in perfetta coerenza con il mandato popolare che ha assegnato al destra-centro italiano e al governo Meloni il ruolo di alternativa euro-realista nei confronti di una Commissione che proprio in ragione di ciò ha dovuto sconfessare rovinosamente gran parte di sé stessa (oltre che sulle politiche green, anche sulla Pac, sul nodo immigrazione) nell’ultima parte di stagione. Salvo poi, con un istinto politicista da far impallidire il parlamentarismo spinto “all’italiana”, ripresentarsi tale e quale ai nastri di partenza. Anzi ancora più dipendente, moralmente, dal fanatismo ambientalista.

Questo secondo round ha confermato peggiorandoli, «nel merito e nel metodo» come ha sottolineato Giorgia Meloni, gli stessi vizi del primo: quello che ha riguardato in stretta misura l’approccio dei governi al risultato delle Europee. Già alla famosa cena dei 27 infatti, il Consiglio europeo informale svoltosi poco dopo le elezioni, era evidente l’antifona. Ricordate? Le due anatre zoppe, Emmanuel Macron, Olaf Scholz, e i maggiorenti del Ppe affannosamente chiusi nel caminetto a discutere della distribuzione dei top jobs (le principali cariche comunitarie), cercando di blindare lo status quo pur di escludere scientificamente Ecr e l’Italia. Tutto ciò “nonostante” l’indirizzo degli europei. La chiusura del cerchio nell’Europarlamento – non della partita che è appena iniziata – ha segnato, dunque, una vittoria di Pirro: quella delle logiche del kratos, del potere, contro la volontà del demos.

Fin qui la cronaca. La tesi critica ripetuta in loop dagli ultrà del vincolo esterno, dalle “cheerleaders” dell’asse franco-tedesco, è che con il «no» Giorgia Meloni avrebbe scelto di non stare «nella stanza dei bottoni». Sostanzialmente di non partecipare alla foto dei cosiddetti vincitori. Più di questo, infatti, non c’è nella letteratura sull’argomento: a meno di non considerare storicamente il Patto di stabilità, il bail-in, la de-industrializzazione, il Mes e così via come grandi “conquiste” dei governi precedenti che hanno votato «sì», senza battere ciglio, ai presidenti della Commissione. Insomma, il pianto greco sull’Italia che così sarebbe «ai margini» è una balla che abbonda esclusivamente fra chi non concepisce altro ruolo italiano che non quello di comprimari di decisioni degli altri.

La realtà è un’altra. Il ruolo e il peso dell’Italia, al netto dell’assegnazione di un Commissario di peso che spetta di diritto (chiedetevi perché nel recente passato, pur avendoli, non se n’è accorto quasi nessuno…), si svilupperanno nelle dinamiche – dossier su dossier – di questa nuova stagione. E Meloni ha già dimostrato nei fatti e coi fatti di saperlo fare: figuriamoci adesso, da rappresentante dell’unico esecutivo fra i “grandi” dell’Ue premiato dagli elettori e punta europea della destra di governo. Certo, la speranza era che la Commissione prendesse atto e interpretasse politicamente la voglia di cambiamento ufficializzata dal voto: la scelta, invece, è stata quella di separare il Palazzo dall’agorà. Di questo i “soci” di maggioranza (ed è da apprezzare il ruolo di Forza Italia che ha cercato in tutti i modi di spiegarlo all’interno del Ppe) ne risponderanno presto alle famiglie e alle imprese, ai cittadini che hanno bocciato senza appello le politiche della prima maggioranza Ursula. A partire dal “filocinese” Green Deal. Progetto che è diventato – incredibilmente – il manifesto della seconda.

Ecco perché quel «no». Evidenzia un problema di merito, di metodo ma anche di prospettiva. Dalla scelta di ieri si capisce perfettamente chi ne ha, sostenuto da un forte mandato popolare che chiede un’Europa attrezzata al ritorno della Storia, e coloro che arrancano. E si aggrappano a qualsiasi “stampella”: stavolta costretti a scegliere la più anti-popolare in circolazione. Non andranno lontano.

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