La kombucha è la bevanda del momento. Si trova nei bar, nei pairing in degustazione dei grandi ristoranti, nelle case degli italiani. Si sposa bene con il fritto misto di pesce, con l’insalata di barbabietola e feta, con il pesce al forno sotto sale o la tartare di gamberi rossi. È perfetta quella al melograno con le bollicine francesi e qualche goccia di cognac. È versatile, la consumi in purezza o nelle più fantasiose creazioni in mixology.
Cresce la comunità di brewer (chi la produce) e homebrewer, e i consumatori, crescono gli imprenditori che investono nella sua commercializzazione.
Ma cosa è? Chi la produce? Come si conserva? Di cosa è fatta? Siamo nel campo dei fermentati, che stanno vivendo una rinascita pur arrivando da lontano. Non c’è nonna che si rispetti, infatti, che non abbia fermentato almeno una volta nella sua vita.
La kombucha è un tè fermentato con una madre di batteri e lievito, detto Scoby (acronimo di Symbiotic Culture of Bacteria and Yeast). Il suo giro d’affari partito negli anni Novanta con il primo brand di kombucha al mondo (oggi sono più di 2.700 i brand), fino a quel momento c’era solo un sistema di autoproduzione, vale oggi 3,4 miliardi di dollari.
Un prodotto tutto sommato nuovo per il mercato italiano che Legend Kombucha, la brewery veronese più grande in Italia a produrlo e commercializzare, ha ribattezzato «Antico Tonico Orientale»: tonico perché ricorda le acque toniche, rinfrescanti e dissetanti. Antico e orientale perché la prima è stata prodotto più di 2000 anni fa in Oriente.
Ora c’è l’esigenza di un’educazione e un’informazione coerente su questa bevanda dai poteri magici prodotta da un fungo miracoloso.
Stefano Zamboni
Il veronese Stefano Zamboni è la testa, il cuore, l’anima di Legend Kombucha: «È nato tutto da un viaggio in America e dal fatto che ero in hangover dopo una serata. Lì è radicato il consumo di kombucha, mi dissero che mi avrebbe aiutato a disintossicare il fegato e a mantenermi attivo. Ammetto, ero scettico. Poi ho capito che sarebbe stata la mia vita, sono tornato in Italia e ho iniziato a fare la mia prima kombucha».
È naturalmente acida, è in grado di autoconservarsi, nasce come bevanda cruda con microrganismi vivi al suo interno, termosensibili, che vuol dire che intorno ai 10 gradi ricominciano a fermentare: «Abbiamo a che fare con una fermentazione naturale, non pastorizzata, non microfiltrata, con solo frutta vera. Ecco perché la nostra kombucha, la vera kombucha si conserva in frigorifero. L’ingrediente principale è il tè, considerato dalla medicina orientale un super food, bene, il processo di fermentazione al quale è sottoposto lo rende un super super food! Gli ingredienti che lo compongono sono solo tre, poi ci sono le infinite aromatizzazioni e se vedete del sedimento in fondo alle bottiglie o alle lattine è perché la bevanda è viva».
Quali sono i tempi di fermentazione?
«Per la nostra kombucha utilizziamo prevalentemente tè verde cinese e una parte di tè verde del Ruanda, in Africa sta prendendo piede e abbiamo scelto anche sul piano sociale di sostenere una fattoria sociale della zona, sperando che sia per loro di buon auspicio. Siamo molti integralisti sui tempi di fermentazione della kombucha. La nostra fermentazione dura almeno 15 giorni, se fermentassimo per meno tempo, ovviamente dal punto di vista industriale avremmo un vantaggio perché produrremmo di più ma il risultato non sarebbe ottimale. In quel caso il processo di fermentazione diventerebbe più simile a quello dell’aceto e le kombucha così ottenute sarebbero acetose, più forti e quasi fastidiose sia al naso che in bocca, da qui poi l’esigenza di aggiungere zucchero o dolcificanti per bilanciare il sapore. La kombucha è un prodotto vivo, quindi occorre mantenere la catena del freddo, nonostante sia più complicato e più costoso».
La kombucha fa bene, quindi.
«Certo. Ha tanti effetti benefici sul corpo, non più solo empirici ma dimostrati dal punto di vista scientifico. A partire dagli anni Cinquanta c’è stata in Italia una trasformazione del sistema agroalimentare. Lo storico Alberto Grandi, dichiara che negli anni Sessanta/Settanta si pensasse che i prodotti industriali fossero migliori di quelli casalinghi perché più controllati. Questo fece diminuire drasticamente la produzione dei fermentati, compresa la kombucha che quasi scomparve ma mai del tutto perché qualcuno portò avanti la tradizione. In Italia non trovò un substrato culturale che le permise di sfondare, cosa che invece accadde negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta. La California era lo Stato delle controculture, si parlava già di vegetarianismo, di ridurre il consumo di carne, c’era lo yoga, un’idea olistica di benessere, le prime birre artigianali e la kombucha ebbe la fortuna di unirsi a tutti questi trend, diventando un fenomeno mondiale. Ci terrei ad aggiungere una cosa. Fa bene se conservata nel modo corretto. Ogni bevanda, non solo la kombucha che è viva, andrebbe conservata sotto i 25°, leggete le etichette! D’estate ci sono 40° per tre mesi, i prodotti arrivano e stanno nei container; quindi, la logistica refrigerata o almeno controllata arriverà anche da noi, come nel resto del mondo. Siamo solo un po’ indietro ma sono fiducioso».
La vostra gamma di aromatizzazioni è molto ampia. Quali sono i gusti più venduti?
«Zenzero a livello mondiale perché, se la kombucha fa bene e lo zenzero fa bene, insieme fanno benissimo. Poi fragola, frutti rossi ed erbe tra cui la mente. In casa nostra vince l’original bland, lo zenzero, le fragole e mokito che sarebbe menta e lime».
Parliamo di fatturato. Da quali mercati arriva?
«Siamo concentrati sul mercato italiano, è qui che vogliamo far crescere il prodotto. È complesso gestire la logistica fuori confini. Abbiamo cliente in Austria, lavoreremo con la Francia ma ad oggi il 99% del nostro fatturato è italiano. C’è tanta voglia di andare in Europa, anche attraverso partnership. Siamo una delle kombucha più care, sappiamo di avere un livello di posizionamento alto e all’estero ci vai per andare in GDO, mercato che a noi non interessa. Sa perché ci cercano tanto dall’Austria? Perché la kombucha austriaca è stata comprata da Red Bull e tutti quei locali che cercano un prodotto genuino e artigianale arrivano da noi. Rimaniamo per scelta fuori dalla GDO perché non vogliamo andare sugli scaffali, il nostro prodotto è vivo, e ciò che trovi al supermercato fuori frigo altro non è un che un tè freddo pastorizzato».
Peccato che il consumatore non lo sappia.
«Il consumatore dovrebbe sapere che la kombucha venduta fuori dal frigo o ha rifermentato ed è diventata alcolica o è pastorizzata; quindi, i probiotici non esistono più e quasi tutti i benefici per l’organismo sono svaniti. Quel tipo di prodotto è lontano dall’idea di elisir di lunga vita che è la base della kombucha. Vero anche che manca una linea guida ministeriale da seguire. Manca una sorta di Consorzio che dia delle regole interne al mercato e attesti che la kombucha fuori dal frigo non è kombucha ma una bevanda a base di kombucha che è diverso».
Come sono le kombucha che si fanno da soli gli chef?
«Sono buone ma di una scuola diversa, tendono ad andare su un grado brix molto più alto all’inizio, partono da un residuo zuccherino di 12g/l per arrivare ad 8g/l, per noi è commercialmente impossibile. Sono kombucha più particolari, ne bevi un po’ per preparati al piatto che arriverà o che la accompagna, e vanno consumate nel lugo in cui vengono fatte, non devono viaggiare. La nostra Kombucha, adesso, la sta bevendo qualcuno a Palermo e qualcun altro in Sardegna, il nostro è un prodotto che dura nel tempo».
Con Ettore Ravizza "business angel" di Legend Kombucha, parliamo della distribuzione.
«Abbiamo un grosso limite che è la gestione della catena del freddo. In America la zona frigo nei supermercati è diversa, ben più grande rispetto all’Italia. Da noi manca spesso lo spazio nel punto vendita, anche se volessimo fornire noi il frigorifero. Nel mercato delle bevande c’è poco spazio e troppi giganti. Distribuiamo in maniera diretta con qualche piccola eccezione, ci sono i distributori delle birre artigianali che conoscono la catena del freddo. Ovviamente dicevamo che è un limite dal punto di vista industriale, rispetto alla bevanda classica, ad una soda qualsiasi, e questo ci porta a fare tante spedizioni ripetute perché il cliente non può avere 100 lattine di kombucha in frigorifero. Stiamo imparando a gestire questo aspetto, siamo nella fase in cui puntiamo a far sì che il prodotto sia richiesto al barista che poi rivolge la richiesta al distributore e un attimo dopo arriva a noi».
Produzione. Diamo dei numeri.
«Siamo nati nel 2019, ma abbiamo iniziato a muoverci realmente come azienda dopo il Covid. Nel 2021 abbiamo fatturato 40 mila euro, nel 2022 70 mila, nel 2023 120 mila euro, nel 2024, supereremo i 250 mila euro. Il nostro obiettivo è arrivare a 5 milioni in meno di 5 anni. Sia chiaro che non c’è solo il nostro brand di kombucha sul tavolo, ma una struttura produttiva che può lavorare anche per altri tipi di bevande che andrebbero a completare il portafoglio della nostra offerta».
Prevedete un alto tasso di crescita?
«Le nostre stime danno un tasso di crescita della vendita simile a quanto accaduto nel mercato spagnolo, passato da 3 milioni a 21 milioni di euro in pochi anni. Ogni anno cresciamo per tre, potremmo produrre anche di più ma non ha senso immettere troppo prodotto sul mercato nonostante quest’ultimo sia molto ricettivo».
Chi è il vostro cliente tipo?
«Noi. Tutti dovrebbero bere kombucha. Serviamo il mercato Ho.re.ca. (Hotel, Restaurant, Café, ndr), parliamo di contesti che hanno un certo approccio culturale al cambiamento ma credo fermamente che il consumo dovrebbe essere casalingo. A darci ragione l’andamento positivo del nostro e-commerce. Fascia d’età? Dai 20 ai 60 anni, senza una prevalenza di genere. È molto interessante l’approccio delle nuove generazioni, anche perché, se prima era un club ristretto a Milano che faceva yoga e beveva kombucha, oggi vorremo un mondo ideale in cui una persona siede al bar e invece di ordinare un crodino, ordina una kombucha perché vuole qualcosa di nuovo, di salutare, senza zucchero, qualcosa che senti che ti fa bene. In altre parole, il mezzo per sostenere la filosofia di Longevity che amplia l’idea di benessere, inteso non soltanto come aumento del life span, cioè della durata della vita, ma come incremento di tutti i fattori che migliorano la qualità della nostra vita».