Il teatro Verdi en plein air capitolo secondo. Dopo l’applaudita Turandot della settimana scorsa, stasera le antiche mura del castello di San Giusto si apprestano ad accogliere la più iconica fra le sinfonie di Beethoven ovvero la numero 9 in re minore op. 125 per soli coro e orchestra, composta a Vienna in un arco temporale che va dal 1822 al 1824 e che, nel quarto e ultimo movimento, contempla una vera e propria apoteosi vocale sul tessuto poetico dell’Inno alla Gioia scritto da Friedrich von Schiller.
Un capolavoro assoluto benché controverso nel giudizio dei colleghi, da Wagner che ebbe a definirlo un ponte verso «l’arte universale dell’avvenire», a Spohr che definì il finale «così triviale che ancora non riesco a capire come l’abbia potuto scrivere un genio come Beethoven» fino al giudizio di Verdi, che definì la Nona Singfonia «sublime nei prmi tre tempi, pessima come fattura nell’ultima parte». Di certo si tratta di una composizione geniale che non lascia indifferenti, anzi dispensa emozioni e coinvolgimento assoluto a chi la esegue e in chi la ascolta.
A officiare il sacro rito beethoveniano di stasera con inizio alle 21.15 - saranno l’orchestra e il coro della fondazione Teatro Lirico G. Verdi di Trieste, maestro del coro Paolo Longo, con la partecipazione del coro del Friuli Venezia Giulia preparato dal maestro Cristiano Dell’Oste e del quartetto di solisti che comprende il soprano Caterina Marchesini, il mezzosoprano Eleonora Filipponi, il tenore Paolo Lardizzone e il basso Manuel Fuentes, sul podio il maestro Alessandro D’Agostini.
«Indipendentemente dal luogo, ogni volta che si fa Beethoven è sempre una sfida - dice il maestro D’Agostini - perché l’organico è sempre complesso e lo è anche il materiale della sinfonia, che è una grandissima musica da camera dove bisogna far funzionare bene la dimensione d’ascolto tra le sezioni e bisogna graduare e armonizzare le strutture in una densità di scrittura spesso problematica».
Eseguire poi questo tipo di musica all’aperto - spiega il direttore - comporta delle necessità di aggiustamenti dal punto di vista fonico per riprodurne la grandiosità ma anche per permetterne la chiarezza esecutiva ma anche di ascolto.
«Mi affascina molto il fatto che Beethoven abbia inserito le voci nell’ultimo movimento - rivela D’Agostini - perché convinto che la voce umana potesse dire qualcosa in più rispetto agli strumenti. In questa sinfonia c’è un discorso musicale ricco, denso travolgenente addirittura fin dal primo movimento che ha una carica drammatica di colore rosso perché piena di fuoco, poi c’è lo scherzo, originale nel movimento vorticoso ma leggero e poi il terzo movimento prettamente lirico».
Praticamente sono tre mondi diversi l’uno dall’altro che poi vengono riassunti nel finale che si apre alla voce umana. Ovviamente come già nella precedente sinfonia Pastorale anche nella Nona c’è l’interesse per la Natura che, attraverso il veicolo della musica, può rendere fratelli tutti gli uomini perché vivono le medesime emozioni.
«In questo senso - conclude il direttore - se pensiamo che la gestazione dell’Inno alla Gioia è stata lunghissima e ha accompagnato tutta l’attività creativa di Beethoven, possiamo ben dire che questa sinfonia è davvero una sorta di summa che impasta, con una meravigliosa soluzione armonica, filosofia poesia e musica nel segno di una versa esaltazione dell’umanità come sognata e suggerita da Schiller». —