Il Tribunale di Trieste ha ordinato ad Asugi di provvedere entro 30 giorni a una nuova valutazione delle condizioni di Martina Oppelli, donna triestina di 49 anni resa tetraplegica dalla sclerosi multipla, per «verificare la sussistenza dei presupposti per l’assistenza al suicidio medicalmente assistito».
Otto mesi fa Asugi le aveva negato l’assistenza. Per ogni giorno di ritardo oltre il termine fissato dal Tribunale di questa nuova valutazione, Asugi dovrà 500 euro a Oppelli.
Martina Oppelli risponde al telefono poche ore dopo la sentenza del Tribunale di Trieste. «Bollita, sono bollita», dice, perché il computer fisso, che utilizza tramite comandi vocali, si trova nel punto più caldo della casa, ha un’inclinazione rigida e lei non può spostarlo.
Tanto meno rinunciare al suo lavoro di architetta, di cui necessita per pagare l’assistenza continuativa delle badanti, da cui dipende per vivere.
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Oppelli, come si sente oggi?
«Bollita. Non avevo contemplato di dover subire un’altra estate. In casa non ho l’aria condizionata. Ho sbagliato a non chiedere prima le ferie: spero di terminare presto i lavori che mi restano, almeno finché durerà questo caldo».
Lei continua a lavorare?
«Certo, non è mai stato un problema. Sono una persona molto pratica, capace di accettare i miei limiti e adattarmi: man mano che perdevo una parte del mio corpo, imparavo a usarne un’altra. Quando sono diventata del tutto immobile, ho imparato a usare la voce».
Che cosa ha provato all’arrivo del pronunciamento del Tribunale?
«Mi sono sentita sollevata, anche se ero sola in questo bollore e non ho potuto gioirne. Ma era una decisione che mi aspettavo. Era l’evidenza, perché la mia è una malattia progressiva e diventa sempre più veloce, acuta e dolorosa».
In questi mesi di attesa ha subìto un peggioramento nelle sue condizioni?
«Le mie condizioni sono ogni giorno più gravi. Mentre attendevo il responso della commissione etica, in dicembre, ho avuto un crollo, psicologico e fisico. Perché le risposte tardavano, finché mi sono resa conto che non sarebbero arrivate per Natale. Me ne sarei voluta andare allora, in anonimato, senza tutto questo clamore: come un fiore. E invece così non è stato. Ho dovuto aspettare mesi prima di ricevere un diniego, e poi sono spariti. Ma tanto in un modo o nell’altro ce la farò lo stesso».
Lei ha deciso di esporsi: perché combattere questa battaglia pubblicamente?
«Sarei potuta andare in Svizzera, chiedendo soldi in prestito, ma sarebbe stata una vigliaccata. Io credo che dobbiamo superare questa inutile vergogna di non farcela. Tutti abbiamo diritto alla resa, a essere stanchi. Mettendoci la faccia, in quel video al Parlamento, nome e cognome, io mi sono sentita libera».
Come è cambiata la sua vita dalla pubblicazione di quel primo appello?
«Sono sempre la stessa Martina, ma più leggera: mi sono liberata di tutti i miei sadici sensi di colpa».
Lei racconta la sua lotta anche online: che tipo di reazioni ha ricevuto?
«Nessuno mi ha mai giudicata direttamente, ma forse, leggendo i miei post e vedendo le mie foto, alcuni hanno finito per non credermi. Eppure io sui social ci posso passare solo mezz’ora al giorno, con una persona al mio fianco. Che poi, che male c’è nel pubblicare una foto? Non mi farei mai ritrarre come sono adesso: con il pannolone, su un telo appoggiato alla carrozzina, i capelli sudati. Finirei per spaventare le persone e non vorrei che un neo diagnosticato getti subito la spugna. È giusto che non molli, che ci provi finché può».
Il suo apparire curata e ordinata ha colpito molti.
«Molti pensano che una persona capace di disegnare una locandina, o preparare un’istruttoria, sia una persona sana. Come se, per essere legittimati a soffrire, dovessimo essere per forza sofferenti. Ma perché fingere di essere una persona che non sono? Io rivendico il mio diritto a sorridere».
In Friuli Venezia Giulia ottomila cittadini hanno firmato per una legge sul fine vita, poi affossata dal Consiglio regionale. Ritiene che la società sia più avanti della politica, su questi temi?
«Sostenevo la legge regionale e penso che il Parlamento debba decidersi a legiferare. Ma questa non è una battaglia di destra o sinistra, bensì di rispetto verso la vita. E in questo credo che la politica abbia bisogno di tempo, soprattutto per liberarsi dai preconcetti religiosi: lo Stato è laico e dovrebbe prendere scelte laiche».
Fuori dall’aula, nella sua quotidianità, vede una società che sta cambiando?
«Il dibattito è fondamentale e le coscienze stanno maturando. Anche io, anni fa, magari avrei avuto i miei dubbi. Ma una civiltà matura deve tener conto del progresso, anche medico, che porta all’allungamento della vita. Ne vale davvero la pena, in queste condizioni? Io non avrei mai pensato di vivere così tanto eppure ce l’ho fatta. Ora basta: pretendere di più sarebbe avidità».
C’è qualcuno che le ha chiesto di non farlo?
«Non i veri amici, ma persone occasionali, che ne fanno questione di etica. A loro però chiedo: cosa mi proponi, quali soluzioni di vita?».
E i veri amici?
«Mi conoscono e mi rispettano, perché chi mi sta accanto da anni ha constatato il peggioramento delle mie condizioni. Ma non mi aspetto che tutti condividano questa scelta: mi rendo conto che perdere un amico non è un gioco. Anche per questo sto cercando di prepararli».
In caso la sua richiesta dovesse essere accolta, intende procedere subito con il suicidio assistito?
«Io sono stata svezzata a radio radicale e datteri di mare: indietro non si torna. Se ho fatto questa scelta, significa che è consapevole, ponderata e non così, tanto per fare. Non si arriva a una decisione simile tanto per creare casino. Quello che conta è che nessun altro dopo di me debba passarci».
Anche in quel momento, sarà una scelta pubblica?
«Quando deciderò di morire, lo scoprirete a cose fatte. Io miro all’oblio».