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A Pamplona la festa è immobile



Alla Feria de San Firmín che si svolge in questi giorni, tutto si ripete uguale da un secolo. Anche le «bugie alcoliche» di Ernest Hemingway, che ha amato, bevuto e descritto la folle corsa di uomini e tori. Un libro li intreccia in un racconto esaltante.

«L’unico vero pericolo è quando le corna colpiscono l’aorta o il cuore. E comunque da queste parti abbiamo fantastici chirurghi vascolari». La giustificazione non richiesta arriva a tradimento mentre i tori sbuffano e corrono con gli zoccoli che mitragliano il selciato, inseguendo dei pazzi con un fazzoletto rosso legato a un polso o alla capoccia. È la Feria de San Fermín, ancora una volta, da più di un secolo. È il delirio collettivo che si ripete per nove giorni a partire dal 6 luglio. Per non essere prolissi basta la definizione dello scrittore spagnolo Rubén Amon: «Iruña y Gomorra». Dove Iruña sta per Pamplona in lingua basca e Gomorra sta per quella tal aberrazione biblica della carnalità. Poi c’è Hemingway. Il grande scrittore americano è idealmente lì, sulla terrazza del bar Choko (ora ribattezzato Txoko), in plaza del Castillo, il salotto buono dei pamplonesi, a sorseggiare un milkshake alla vaniglia molto corretto con il cognac, e a organizzare la serata. È l’ufficio all’aperto dell’uomo chiamato «Papa», principe della letteratura innamorato della tauromachia, da Joselito «el Gallo» a El Cordobés, che nel 1923 scopre il sabba collettivo e lo racconta al mondo.

Quando arriva a Pamplona per la prima volta, spedito dagli immaginifici racconti che gli venivano fatti da Gertrude Stein (sacerdotessa letteraria del salotto parigino più all’avanguardia) il turismo di massa non esiste, inizierà a prendere piede nel Dopoguerra. Sono ancora gli anni in cui domina la figura del viaggiatore, giacca bianca di lino stazzonata, scarpa comoda perché sformata, Stetson di paglia versione Far East. Il colonialismo della flanêrie, quando muoversi era un privilegio di pochi. Come scriveva Evelyn Vaugh (un altro «flanellone» a pedali): «Ci veniva naturale farlo voltando le spalle alla civiltà». In fondo è la stessa urgenza che incendiò gli animi dei più grandi scrittori con gli stivali, da Jack London a Bruce Chatwin. Esotismo e fantasia, ecco il segreto di tutto. Tori e toreri, lampi di genialità hemingwayana, suggestioni del passato che arrivano a noi come scariche elettriche.

È tutto in un agile e prezioso libro, A Pamplona con Ernest Hemingway di Giuliano Malatesta (Perrone editore), giornalista esperto nell’inseguire i grandi dentro i loro racconti, dentro le loro vite sfaccettate. Per conoscerli, incalzarli, qualche volta smentirli. Lo ha fatto a Barcellona con l’indimenticabile romanziere e giallista Manuel Vázquez Montalbán, a Genova con Fabrizio De André, a Las Vegas con i fantasmi perduti del «non luogo» più famoso del mondo. Qui c’è Papa da accompagnare, in qualche caso da sorreggere mentre barcolla pericolosamente, anche se alla Feria «alla fine non si ubriaca nessuno perché il vino è annacquato».

Cominciamo a sminare miti. Scrive Malatesta: «Non importa se le storie che Hemingway raccontava danzavano in perenne movimento lungo quella sottile e invisibile linea di demarcazione che separa la finzione dalla realtà. Era parte della sua mistica e bisognava accettarla. L’editore e amico Aaron Hotchnef diceva che la finzione è un ingrandimento della realtà». Quando Papa dipingeva una situazione con le parole era difficile sapere se fosse fantasia intrecciata a realtà o pura fantasia. Aveva davvero gettato un leone fuori dall’Harry’s Bar di Parigi? O avuto una storia con Mata Hari, la leggendaria danzatrice e spia al soldo dei tedeschi fucilata nel 1917, anche se le date non combaciavano? Poco importava. Figuriamoci a Pamplona, dove costruisce la leggenda della sagra nel suo capolavoro Fiesta, dove torna ancora e poi ancora (nove volte) fino al 1959 da vincitore del premio Nobel, da cacciatore alle falde del Kilimangiaro, da sopravvissuto a due incidenti aerei, da testimone di due Guerre mondiali, raccontate come se le avesse vinte lui. «Era sorridente, pronto a vivere quella che per sua stessa ammissione sarà l’estate più bella della sua vita. Ma con una venatura di ombrosità nel volto che in realtà faceva presagire l’arrivo dei primi fantasmi», ci ragguaglia Malatesta, ricordandoci che due anni dopo quell’ultimo tango toreado si sarebbe suicidato con due colpi di fucile, preda della depressione.

A Pamplona i «Papa boys» erano sempre una dozzina, tutti attorno a lui. Lo ascoltavano e annuivano, ordinavano un altro giro. Segretari, amanti, semplici avventizi, aspiranti giornalisti, travolti dalla febbre della festa mobile e selvaggia. «Es como torear», ma solo «para dos minutos», racconta il libro. Malatesta non si limita a rievocare, tocca con mano. Due minuti? Serve un approfondimento. «Così mi sussurra divertito, intuendo un mio comprensibile spaesamento, il mio vicino di terrazzo, che altro non è che un minuscolo e strettissimo balcone pagato alla stregua di una pepita d’oro per poter assistere da una posizione privilegiata, assieme ad altri sconosciuti avventori, all’encierro, la famigerata corsa dei tori, l’atto più importante, celebrato e discusso della festa più pazza di Spagna. Ottocentocinquanta metri di pura adrenalina, talmente assurdi da sembrare infinitamente più lunghi, anche se il tutto dura appena 120 secondi. Il record, raccontano i più anziani, è fermo al 2014, quando il cronometro si fermò a due minuti e cinque secondi. Hemingway scrisse che il percorso era lungo un miglio, ma evidentemente si sbagliava. Dettagli».

Era stato lo stesso Papa ad avvertire i lettori e il mondo, scrivendo un giorno a sua madre: «Non è innaturale che i migliori scrittori siano bugiardi, una parte importante del loro mestiere è mentire o inventare». La corsa, tecnicamente, non è altro che il trasferimento dei tori dal recinto, dove sono stati portati la sera prima, fino all’interno dell’arena, dove il pomeriggio si svolgerà la corrida. La partenza è in salita e il percorso è obbligato, per impedire che quei carriarmati viventi deviino in altre stradine. Non ci sono vie di fuga; alla vigilia vengono posizionate le barriere, alte palizzate di legno rinforzate da coperture metalliche, montate e smontate ogni giorno da un’équipe di 40 falegnami, che sigillano tutte le uscite. Quei «frangiflutti» servono a reggere i possibili urti dei tori, impendendo anche che l’animale venga preso da un irrefrenabile istinto di andarsene per le vie della città. Scrive Malatesta: «Non è il momento più pericoloso, ma quello in cui i tori sono più veloci e scattanti. Per due ragioni: una ovvia, sono meno stanchi. L’altra meno ovvia. Per la loro conformazione fanno meno sforzo a spingere in salita».

Il libro spiega un altro piccolo mistero: i tori corrono perché hanno paura. Negli ultimi quattro anni di vita non hanno mai incontrato un uomo a piedi, solo a cavallo, quindi sono attratti e disorientati dai bipedi che si scapicollano davanti a loro con il fazzoletto carminio. Se si ha la sfortuna di inciampare da quelle parti non resta molto altro da fare che pregare e posizionarsi in posizione fetale. Sulla scelta del colore rosso girano numerose leggende. La più ripetuta è quella del ricordo del martirio di San Fermín, primo vescovo di Pamplona, che morì decapitato nella città di Amiens durante le persecuzioni del terzo secolo. Il rosso simboleggerebbe il sangue del Santo patrono. Viene ricordato per sempre quello di altre 15 persone in un secolo, vittime dell’encierro. La prima esattamente 100 anni fa, l’ultima nel 2009. Sedersi in un bar a imitare Hemingway oggi è praticamente impossibile. Cafeterie eleganti dove nei giorni normali gentili camerieri servono café con leche accompagnato da morbidi churros vengono stravolti dall’evento: le sale interne e gli spazi comuni sono trasformati in piste da ballo. Scrive Malatesta: «Se ordini una spremuta d’arancia rischi di ritrovarti con un gin tonic in mano alle otto di mattina. In giro sembra ci sia spazio solo per l’alcol, la confusione, il rumore, la dissolutezza e una sorta di primitivo eccitamento». Iruña y Gomorra forever.

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