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Ex-Ilva, il grande vuoto



L’acciaieria di Taranto, ora in mano a un commissario e con migliaia di operai in cassa integrazione, è da sempre sovradimensionata rispetto a quelle con analoghe produzioni. Ecco che cosa deve sapere chi la vuole rilanciare.


Aveva cinque altiforni: ne è rimasto in funzione solo uno. Produceva 10 milioni di tonnellate di acciaio l’anno: ora appena un milione e mezzo. Aveva 20 mila dipendenti: ne sono rimasti 8.025, di cui 2.500 in cassa integrazione e il numero è destinato a salire a 4.400. Il vecchio centro siderurgico ex-Ilva di Taranto è l’ombra del gigante che fu. Un record però ce l’ha ancora: le dimensioni. Sono quelle di mezzo secolo fa. Lo stabilimento è grande quanto 2.100 campi di calcio, esteso quanto una città. Benché la produzione sia un decimo dei tempi d’oro e il numero dei dipendenti quasi un terzo, la vecchia Ilva occupa gli stessi spazi di sempre. In fondo, è la fabbrica dei record.

Chi riuscirà ad acquistarla (al momento i candidati sono tre, le società indiane Vulcan Green Steel e Steel Mont oltre al colosso ucraino Metinvest) metterà le mani su un’azienda da rifondare, ma anche un territorio vastissimo: 15 chilometri quadrati. Una distesa che va dall’area portuale di Taranto (quattro banchine, 931 mila metri quadrati, dove arrivano le materie prime e si imbarcano i prodotti finiti, tubi e lamiere) fino all’entroterra. Un tempo i numeri destavano orgoglio, oggi sorprendono. Centonovanta chilometri di nastri trasportatori, 200 di rete ferroviaria, 50 di strade, 22 di gasdotti, una centrale elettrica, due acciaierie, tre tubifici, quattro impianti di laminazione, cave e discariche interne. Il parco minerali è di 66 ettari. Nessun’altra fabbrica regge il confronto.

Lo stabilimento tarantino di Acciaierie d’Italia (l’ex Italsider-Ilva) è una fabbrica senza uguali. Più grande della Volkswagen di Wolfsburg, 65 mila addetti su un’estensione di 6,5 chilometri quadrati. Più grande del colosso chimico tedesco Basf, dieci chilometri quadrati a Ludwigshafen, oltre 30 mila addetti. Più grande, mettendo il naso fuori dall’Europa, della fabbrica di auto della coreana Hyundai, a Ulsan, 34 mila addetti su 5,5 chilometri quadrati. «Non ho mai visto niente del genere. E non credo che qualcosa del genere esista» ammette Pasquale Lenzi, 88 anni, vecchio altofornista dell’Ilva, una vita in giro per il mondo. «Nel centro siderurgico giapponese della Nippon Steel, a Oita, molto più piccolo di quello di Taranto, con due altiforni si producono 10 milioni di tonnellate; noi li producevamo con cinque altiforni». Chiunque acquisterà Acciaierie d’Italia, commissariata dopo la gestione di ArcelorMittal, rileverà gli impianti di Genova-Cornigliano e di Novi Ligure, ma soprattutto la fabbrica che quest’anno, il 9 luglio, ha festeggiato i 64 anni e il suo gigantismo ottocentesco. Lo stabilimento ex-Ilva è sette volte più grande del quartiere Tamburi, accanto al quale fu edificato; cinque volte più grande di Città Vecchia e Borgo, i due quartieri centrali di Taranto; sei volte più grande del centro siderurgico di Bagnoli, chiuso nel 1992. Più grande di Sesto San Giovanni, storico polo industriale della Lombardia che misura poco meno di 12 chilometri quadrati.

Ha ancora un senso un’azienda che occupi tanto territorio? Lenzi, un uomo imponente di un metro e 83 per 92 chili, adorava la fabbrica in cui entrò nel 1961, proveniente da Montella, il suo paese in provincia di Avellino. «Ero perito meccanico, feci domanda, fui assunto come capoturno. Mi mandarono a fare corsi a Cornigliano, a Piombino, negli Stati Uniti, a Cleveland. Tornai nel 1964». Quando l’azienda lo dotò di una Fiat 500 per muoversi nel centro siderurgico, si accorse che non riusciva a entrarci. «Dissi: datemi un Vespino». Così Lenzi - «Pascalone» lo chiamavano tutti - usava lo scooter per attraversare la fabbrica, troppo grande per una bicicletta. «Uscii nel 1992 dall’Ilva, prima della privatizzazione. Lavorai come consulente all’estero fino al 2012, in India, alla Tata Steel, ma ero stato anche in Messico e in Giappone: avessimo scelto i giapponesi della Nippon Steel anziché ArcelorMittal non ci saremmo ridotti così...».

In un modo o nell’altro, quella di Taranto è la fabbrica dei primati. Il 9 luglio 1960, quando fu posata la prima pietra, questo pezzo di Puglia visse una rivoluzione: rinunciò a 40 mila ulivi secolari, sradicati dalle ruspe insieme a un numero indefinito di ettari di vigneti e decine di masserie, cosicché il quarto centro siderurgico dello Stato, costruito dopo gli impianti di Bagnoli, Genova e Piombino, divenne in un decennio più grande della città che lo ospitava. L’Italsider, il centro siderurgico più esteso d’Europa - fu questo uno dei primi record - fece schizzare gli indicatori economici, così la città si ritrovò, nel periodo 1960-1970, con un incremento del reddito pro-capite del 374 per cento contro il 269 del resto d’Italia. «Taranto è la più prospera delle città del Meridione» scrisse Walter Tobagi in un reportage pubblicato dal Corriere della Sera nel 1979. Poi cominciò la discesa: nel 1988 i dipendenti calarono a 16 mila, a 11 mila nel 1995, l’anno della privatizzazione. L’Iri vendette l’Ilva per 1.649 miliardi di lire al Gruppo Riva, travolto 17 anni dopo - nel 2012 - dall’inchiesta giudiziaria per disastro ambientale: 26 condanne per 270 anni di carcere in primo grado, è in corso il processo di appello. La famiglia Riva fu messa alla porta con il primo commissariamento dell’azienda, ceduta poi nel 2018 ad ArcelorMittal, che tre anni dopo tentò di sfilarsi, diventando infine socio di maggioranza di Acciaierie d’Italia insieme con lo Stato italiano. Che l’ha poi estromessa con il secondo commissariamento nel febbraio 2024.

La conclusione di questa girandola dovrebbe essere la vendita dell’ex-Ilva a un soggetto privato in grado di rifondare le vecchie acciaierie rendendole compatibili con l’ambiente e la salute. Perché qualche problema - e grosso - c’è. L’hanno rilevato le autorità sanitarie. Poi la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia (nel 2019 e nel 2022) per non avere protetto i cittadini di Taranto dai rischi dell’inquinamento. Perfino l’Onu, il cui Consiglio per i diritti umani ha sottolineato (2022) che l’Ilva ha compromesso la salute dei cittadini. Infine, la Corte europea di giustizia - è storia di questi giorni - ha sentenziato che va sospesa l’attività dell’ex Ilva se comporta pericoli per la salute. Acciaierie d’Italia sostiene, nella valutazione di impatto sanitario consegnata ai ministeri dell’Ambiente e della Salute, preliminare al riesame dell’autorizzazione integrata ambientale, che il rischio è accettabile con una produzione di sei milioni di tonnellate di acciaio l’anno. Il Comune di Taranto, nel maggio 2023, ha ordinato la chiusura dell’area a caldo (gli altiforni), di cui i giudici di primo grado hanno peraltro disposto la confisca: la partita si giocherà dinanzi al tribunale amministrativo.

Non è una questione semplice. Eppure, il governo e il ministro delle Imprese Adolfo Urso scommettono sulla rinascita, il sindacato molto meno. «Al momento non abbiamo visto alcun piano. Una fabbrica così grande? Non ha senso. Se venisse costruita oggi avrebbe una dimensione di un terzo». Rocco Palombella fu assunto come operaio nell’Italsider, era il 1973. «Avevo 18 anni». Segretario generale della Uilm il sindacato dei metalmeccanici Uil, nel 2013 dichiarò: «L’Ilva non reggerà. Ha cinque anni di vita». Di anni però ne sono trascorsi 11. «Non ho cambiato idea, l’azienda non ha speranza, tutti sapevano che sarebbe finita così, dai governi ai partiti. L’ex Ilva cade a pezzi. ArcelorMittal ha dato il colpo di grazia. Non ha investito niente».

Ora la gestione commissariale di Acciaierie d’Italia annuncia un aumento della cassa integrazione (a Genova-Cornigliano 400 unità, a Novi Ligure 245, a Taranto 4.400) perché l’attuale produzione non garantisce l’equilibro finanziario. Non solo: manca un miliardo per fare ripartire la fabbrica entro l’anno. Non hanno questi grattacapi 1.400 chilometri più a nord, dove in Germania la città dell’automobile, Wolfsburg, ha 124 mila abitanti e la metà lavora nella Volkswagen, la fabbrica voluta nel 1938 da Hitler affinché producesse l’auto del popolo. «Nei contratti si stabilisce che l’azienda deve innovare, e fino al 2029 non ci saranno licenziamenti» dice Franco Garippo, italiano di Palomonte (Salerno), arrivato a Wolfsburg nel 1967 con la madre e la sorella maggiore, dieci anni dopo l’emigrazione del papà. «Avevo dieci anni, a 18 ero al lavoro alla catena di montaggio della Volkswagen, sono uscito dall’azienda nel 2022, a 65 anni».

Come sindacalista di Ig-Metall, Garippo è stato per 38 anni nel betriebsrat, il consiglio aziendale, partecipando alle decisioni strategiche «perché in Germania il sindacato decide e ha potere di controllo». Oggi Garippo è sindaco di Kästorf-Sandkamp e segretario del Pd Germania, ma continua a seguire la sua vecchia azienda. «Dei lavoratori di Volkswagen, metà sono di Wolfsburg, metà sono pendolari. Sa come si dice qui? Se Volkswagen ha il raffreddore, Wolfsburg ha la polmonite». Si diceva anche a Taranto ai tempi d’oro dell’Italsider. Ma ora è un’altra storia e potrebbe essere riassunta così. Volkswagen, se fosse una città, avrebbe 10 mila abitanti per chilometro quadrato; Hyundai ne avrebbe 6.100; Basf tremila; l’ex-Ilva ne avrebbe 535 per chilometro quadrato, ma potrebbero diminuire. Una città enorme, ma vuota. Il sito web di Acciaierie d’Italia promette: «Per il polo siderurgico di Taranto sta cominciando una nuova era». Bisognerà attendere per capire quale.

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