Son passati 5 anni esatti dalla maxi-sanzione di 5 miliardi di dollari comminata dalla Federal Trade Commission nei confronti di Facebook per la gravissima violazione di dati personali operata con il fattaccio di “Cambridge Analytica”. L’indagine, lo ricordiamo, era stata avviata nel marzo 2018 quando fu scoperto che Cambridge Analytica aveva “trafugato” dati personali di circa 87 milioni di utenti Facebook per “indirizzarne” in qualche modo il voto. E per questi stessi fatti si era mossa anche la nostra Authority poco dopo.
Quando il vaso di Pandora è stato scoperchiato, Facebook ha cambiato nome in Meta e, in questi ultimi anni, molte altre sanzioni sono state applicate da diverse Autorità (Antitrust e Protezione dei dati personali) nei confronti dei Big Player (non solo Meta, ma anche Amazon, Microsoft, Apple e Google e pochissimi altri) che per troppo tempo, in modo indisturbato, hanno gonfiato i loro sterminati patrimoni grazie a una mercificazione profilatissima delle nostre identità digitali, calpestando così sistematicamente nostri diritti e libertà fondamentali. Inoltre, l’Europa ha provato effettivamente a reagire a questo strapotere economico fondato sui nostri dati personali con alcune specifiche regolamentazioni che provano a porre degli argini a tutto ciò che accade online.
In realtà, non possiamo non riferirlo, l’attuale regolamentazione dei mercati e dei servizi digitali è affidata a un groviglio, quasi impenetrabile, di norme (e relative sanzioni) che mirano a governare aspetti diversi, a volte paralleli (e a volte no), dello stesso fenomeno. Ci si riferisce alle varie normative Ue che ormai si esprimono in acronimi, come eIDAS, GDPR, NIS, DSA, DMA, DGA, Data Act, DORA e così via, sino ad arrivare all’AI Act, che è stato pubblicato proprio oggi in Gazzetta Ufficiale europea.
Ma è cambiato effettivamente qualcosa rispetto a qualche anno fa? Si ha l’amara sensazione che la realtà digitale che ci riguarda nella sostanza non sia mutata e non si avverte neppure una diffusa consapevolezza del problema da parte della popolazione, la quale continua a servirsi di prodotti on line e social senza alcuna attenzione, accettando profilazioni sempre più invasive, previa spunta di una casella per previa visione di un’informativa (non letta) e manifestando consensi attraverso sempre più svogliati “point & click”.
Anzi, proprio in questi giorni, il sultano Mark Zuckerberg è piombato nel golfo di Napoli con il suo mega yacht. E, come si conviene in questi casi, è stato accolto con particolare riverenza e grande attenzione mediatica dall’intera popolazione e dalle autorità istituzionali.
Lui, come tutti gli altri Colonizzatori di Dati, ha realizzato (e continua a realizzare) mirabili dimore, dove poter ospitare identità digitali (italiane ed europee), dotate di ogni servizio essenziale da elargire attraverso gli artifizi di una sempre più pelosa “gratuità”. Il conto da pagare è, del resto, solo e soltanto la nostra selvaggia profilazione, di cui ci importa sempre di meno, perché da tempo abbiamo accettato con il sorriso che ogni granello delle nostre intimità sia in mano altrui.
Ognuno dei Sultani dei Dati ha costruito minuziosamente il suo monopolio su di noi, in modo da non doverlo dividere con gli altri. A ognuno il suo Mercato Dominante dove poter profilare e manipolare in piena libertà (e in barba alle normative antitrust). Amazon ha l’e-commerce, Meta i social (e le chimere già dimenticate del metaverso), Microsoft le professioni, Google la ricerca, Apple il profumo digitale più radical chic.
L’Ue, dopo troppi anni di silenzio, oggi sta provando a contenere tale strapotere in nome di diritti e libertà fondamentali sui quali è da sempre fondata la democrazia analogica degli Stati nazionali che la compongono. Ma il dado/dato è tratto da tempo e le sanzioni milionarie post Cambridge Analytica sono ridicoli balzelli per uno strapotere perpetrato per troppi anni in modo indisturbato.
Il monopolio sui dati ha generato ricchezze che la normativa non è in grado effettivamente di governare, dopo aver acconsentito che ciò accadesse per così tanti anni a livello internazionale.
E oggi, forse dovremmo riferirlo con chiarezza a tutti Noi, con l’Intelligenza Artificiale sta avvenendo la stessa cosa. Per diversi mesi le intelligenze artificiali generative hanno scandagliato indisturbatamente il web fagocitando dati per addestrare i loro algoritmi. Solo dopo averlo fatto (con la compiacenza silente di ogni potere costituito) oggi ci si chiede se si potesse davvero agire in quel modo e se si possa attualmente continuare ad alimentare l’onnipotente IA in nome dell’evoluzione tecnologica.
In verità, in punto di diritto non si dovrebbe poter copiare in modo indisturbato, calpestando copyright e diritto d’autore, per poi ricordarsi che forse c’è il diritto di qualcuno che ha creato. È più comodo pensare – dopo aver rapinato il malloppo intellettuale – a un comunismo di idee universale. Una libera community dove le invenzioni son di tutti e tutti ce ne possiamo appropriare per il tramite di Sistemi Algoritmici “Pensanti”. Peccato che anche questi sistemi siano in mano a pochi, sempre gli stessi. E l’unico che ci guadagna davvero possiede uno straordinario yacht.
Ma non è solo Zuckerberg effettivamente a guadagnarci. Perché si ha la sensazione che il predominio del dato profilato (e manipolabile) faccia comodo a tanti, anche ad alcuni Stati. Che sia in nome della sicurezza internazionale, del social scoring, o del mantenimento di una dittatura, effettivamente poco importa.
L’importante è trovare un buon accordo con gli Over The Top a nostro discapito.
L'articolo Cambridge Analytica, per Meta sanzioni ridicole e dominio sui dati: in cinque anni nulla è mutato proviene da Il Fatto Quotidiano.