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Storia del tennis italiano alle Olimpiadi.  Prima parte: i “Momenti di gloria” del Conte Bonacossa e del Barone de Morpurgo

Precisamente cento anni fa, nella ruggente Parigi del 1924, il barone Hubert Luigi De Morpurgo stringeva vittorioso la mano a Jean Borotra, il “basco volante”, uno dei leggendari Quattro moschettieri. Il più grande tennista italiano fino all’avvento di Nicola Pietrangeli conquistava il bronzo ai Giochi Olimpici di quell’anno. Non sapeva, però, che il tennis, disputato con costanza a partire dal 1896 (del nostro sport alle Olimpiadi originali né Pausania né soprattutto Gianni Clerici hanno rinvenuto alcuna traccia) non sarebbe più riapparso come sport ufficiale della competizione prima del 1988. Né sapeva che, escluse le generazioni Pietrangeli e Panatta, il suo traguardo sarebbe rimasto solitario fino almeno a…Parigi 24. Precisamente cento anni dopo, nella stessa città, i colori azzurri hanno una nuova possibilità concreta (anche se non certo scontata) di accaparrarsi questa medaglia, che, per via della sua storia altalenante e particolare, fatta anche e soprattutto di polemiche e edizioni sottotono è sfuggita per anni ai nomi più illustri. Vogliamo mettere in luce questa storia, evidenziandone i cambiamenti nel tempo, i campioni e le campionesse che hanno segnato l’albo d’oro e quelli che positivamente o negativamente ne sono stati segnati, soffermandoci in modo particolare sulle poche gioie e le molte insoddisfazioni dei tennisti che hanno rappresentato l’Italia, dando infine uno sguardo all’edizione di quest’anno, alle sue speranze e agli obiettivi della pattuglia azzurra. A partire dalle prime spedizioni del Conte Bonacossa, e del Barone De Morpurgo…

Gli inizi: Atene 1896 e la spedizione di John Pius Boland da Oxford; Elvira Guerra e…Napoleone

Filmati a colori della prima edizione delle nuove Olimpiadi, nel 1896

Fu negli ambienti più altolocati, come Oxford, che l’idea del barone De Coubertin – far rivivere i Giochi olimpici per migliorare l’educazione fisica dei giovani (in questo identificava la causa della disfatta francese contro i prussiani nel 1870) – trovò le prime entusiaste ricezioni e cominciò ad essere sponsorizzata da qualche volantino, come quelli distribuiti dal volenteroso Thrasyvalos Manaos, successivamente divenuto Segretario del Comitato Organizzativo dei giochi. Accadde che John Pius Boland, universitario praticante tennis e cricket e appassionato di mitologia greca, che conosceva bene Manaos, lesse la pubblicità e si fece convincere dall’entusiasmo dell’amico; si recò dunque ad Atene per assistere all’ evento come spettatore.

Il tennis alle Olimpiadi si caratterizzò all’inizio per essere un evento disorganizzato e…indeciso: le prime edizioni del tennis ai Giochi (fin dal 96) cambiarono più volte formula e format proposti: già a Parigi, nel 1900, fu introdotta la partecipazione femminile, e il doppio misto; nelle edizioni del 1908 e del 1912 si disputarono addirittura otto tabelloni, perché ogni specialità fu giocata sia outdoor (quasi sempre sull’erba) sia indoor (in un caso anche sul…legno!); dopo la guerra, l’indoor venne eliminato, e la formula di Parigi ’24, che conta singoli e doppi femminili oltre che il doppio misto, è quella in vigore ancora oggi, con la reintroduzione di quest’ultima specialità a Londra nel 2012.

Fatta questa doverosa digressione, e dato a Boland il tempo di recarsi al Tennis Club Atene, sulle sponde dell’Ilisso, lo seguiamo ora mentre scruta il tabellone del singolare e…trova inserito il suo stesso nome! Passato poco tempo, Friedrich Traun, suddito di Guglielmo II, gli chiese di sostituire nel torneo di doppio il suo compagno ammalato. Il gioco era fatto…mancavano solo delle scarpe adatte. Una settimana dopo, acquistato il necessario, l’irlandese tornava a casa con due ori al collo: la fiducia di Manaos fu evidentemente ben riposta.

1900, su un’isola della Senna: la prima edizione delle Olimpiadi disputata a Parigi. Non fu un gran successo, in realtà; ma, per la prima volta, il torneo del tennis fu disputato dai giocatori migliori del mondo. Tali erano i fratelli Doherty (in due, facevano nove titoli a Wimbledon): Laurence detto Laurie vinse sia singolare che doppio in coppia col fratello Reginald, detto Reggie, che fu poi in grado di ripetersi anche nel doppio misto, in cui trionfò con Charlotte Cooper, oro nel singolare, un’altra plurivincitrice dei Championships quando ancora si giocava con la gonna lunga fino alle caviglie. Ed altrettanto lunga fu la sua carriera: nel 1912, a 41 anni, era per l’ultima volta in finale sui prati londinesi. Nel tabellone che l’avrebbe condotta alla vittoria, ci interessa però notare un altro nome, quello di Elvira Guerra, la prima tennista italiana a scendere in campo alle Olimpiadi: nata a San Pietroburgo, quell’anno era in gara anche come cavallerizza. Partecipò al “chaveaux de selle”: arrivò prima fra i non francesi, dei quali a vincere fu Louis Napoleon Murat, bisnipote di quel Napoleone…inutile domandarsi quale fosse il colore del suo destriero, eloquentemente chiamato The general.

Anversa e Parigi: Maxime e Queen Helen, il conte Bonacossa e il delitto Matteotti

https://youtu.be/IIhV47I5pC0?si=e0qzNseHIcaaYz-y: Helen Wills vince l’oro a Parigi 1924

In quegli anni, tuttavia, il successo che le Olimpiadi avevano ottenuto in Grecia rimase ineguagliato all’estero: le edizioni più fortunate  in questo periodo furono le cosiddette  “intermedie” (le cui medaglie oggi non vengono conteggiate), disputate fra un’Olimpiade e l’altra sempre ad Atene. L’iniziativa cadde in disuso dopo la guerra, come almeno parzialmente rovinata dalla guerra fu la carriera di Maxime Decugis, otto volte vincitore di Parigi in singolo (fra il 1903 e il 1914) e tredici in doppio, impossibilitato a difendere il titolo (e a mettere i bastoni fra le ruote al record di Rafa Nadal) per l’insorgere delle ostilità. Max vinse in singolare nel 1906 appunto ad Atene e di nuovo, in doppio misto, nel 1920: in coppia niente di meno che con la “Divina”, Suzanne Lenglen. Quell’anno, la prima vera squadra azzurra era composta da Mino Balbi, Rosetta Gagliardi, Alberto Bonacossa (tornerà a breve) e Cesare Colombo. Insomma, il torneo era ben frequentato: nel 1908, a Londra, vinse nell’indoor il baffo di Arthur Gore (ha partecipato 36 volte a Wimbledon, vincendolo per l’ultima volta a 41 anni); a Parigi, nel 1924, il posto della malaticcia Lenglen fu preso da Helen Wills, la “Regina” chiamata dai giornalisti (ingiustamente, dice Clerici) Poker Face, “avvampante di gelida presunzione”. Sette US Open, otto Wimbledon, 4 Roland Garros. La sfida fra lei e Lenglen assomigliò a lungo a quella fra Chris Evert e Martina Navratilova. Al maschile, invece, in quell’edizione c’erano tutti: Henri Cochet, Jean Borotra, Rene Lacoste, Vincent Richards…per questo, l’impresa del Barone Hubert De Morpurgo è ancora più rilevante.

Ma come arrivava il tennis italiano – un movimento nato alla fine dell’Ottocento sui campi all’inglese di Bordighera – a quell’appuntamento? Il factotum della pattuglia era il conte Alberto Bonacossa, figura poliedrica, fra sport giocato (tennis e pattinaggio) e ruoli di alta dirigenza (presidente del CONI, fondatore del TC Milano, sui campi del quale si disputarono i primi Internazionali d’Italia). L’estate del 1924, però, non è un’estate qualunque: sono i giorni del delitto Matteotti, i cui eventi si ripercuotono in ambito politico, culturale e, infine, anche sportivo. In seguito all’omicidio, annunciava le dimissioni Aldo Finzi, presidente del CONI; da sottosegretario qual era, in breve tempo cadde in disgrazia: vent’anni dopo, sarebbe stato una delle vittime delle fosse Ardeatine.  Tornando al 1924: è dunque il conte Bonacossa, in un clima di crisi e disorientamento, ad incaricarsi di mettere insieme una squadra olimpica. Al femminile, la giocatrice di punta era ancora una volta Rosetta Gagliardi Prouse, che giunse in ottavi; al maschile, la pattuglia poteva contare su Clemente Serventi e Riccardo Sabbadini. Oltre, ovviamente al barone. “La nostra tecnica era piuttosto approssimativa – ricordava la Gagliardi – “gli allenatori non esistevano, gli uomini avevano dei rovesci artigianali, io servivo di sotto, tagliato, e la mia arma più temibile era il pallonetto.”  “Mio cugino Clemente e Sabbadini” – ricorda invece Augusto Serventi – “vivevano di scommesse al circolo (il Roma, più che il Parioli, dove giocava comunque il Mecenate del tennis, il Re Gustavo di Svezia, ndr)”. Campionissimi in casa, i nostri ebbero però poco successo all’estero (ci misero tre anni di tentativi a vincere un primo tie di Davis, contro lo scarsissimo Portogallo), né ebbero grande fortuna le loro spedizioni olimpiche.

Il barone De Morpurgo, il Basco salterino e la prima medaglia

Incontro di Coppa Davis del 1930 in cui De Morpurgo fa la sua comparsa in coppia con Gaslini. Al tempo del filmato era fra i dieci migliori giocatori del mondo

Un po’ come oggi, il grande campione del tennis italiano veniva dal nord, l’estremo nord, ed anzi, all’inizio…non era nemmeno italiano. Madre britannica, padre austriaco, origini ebree, il barone Hubert De Morpurgo aveva come patria Trieste, che al tempo dei suoi natali era ancora un porto dell’Impero austro-ungarico. Un cosmopolitismo che potrebbe accomunarlo a un altro grande del nostro tennis, Nicola Pietrangeli. De Morpurgo non veniva dunque dalla – pur esigua – tradizione tennistica italiana; fummo fortunati, però, ad averlo fra le nostre fila nel momento della sua massima maturazione tennistica: naturalizzato italiano dopo la guerra, fra il 1928 e il 1930 le classifiche giornalistiche lo videro sempre fra i primi dieci. Comunque, di partecipare agli Assoluti, un torneo che riteneva volgarmente troppo facile, non voleva saperne. De Morpurgo aveva un carattere…complicato. Quando una volta finì per perdere contro un altro rampollo del tennis italiano, Giorgio De Stefani, si dice addirittura che lo lasciò “in mezzo al campo allibito, con la mano tesa e una guancia arrossata, per uno schiaffo preciso e violento quanto uno dei suoi diritti.” Si può immaginare, dunque, quanto fu difficile convincerlo a scendere in campo a Parigi, dove pure lui albergava (letteralmente: si spostava da Grand hotel a Grand hotel accompagnato dalla moglie con cui costantemente litigava e dal cagnolino Tschao); addirittura, il conte convinse il barone ad iscriversi al torneo di doppio oltre che a quello di singolare, in coppia con Giulia Perelli, che gli venne presentata solo al momento di scendere in campo. Fino agli ottavi di finale, il cammino di De Morpurgo fu immacolato: 6-1 6-0 6-0 all’olandese Wolff; 6-2 6-3 6-3 allo svizzero Debran; 6-0 6-2 6-4 al greco Zerlentis; l’unico vero spavento giunse agli ottavi, contro il belga Washer, contro il quale dovette rimontare uno svantaggio di due set a uno per vincere al quinto otto giochi a sei. Dopo aver liquidato il giapponese Harada, approdò alle semifinali. Gli anni precedenti sarebbe stato certo di una medaglia (che veniva assegnata ad entrambi i semifinalisti sconfitti) ma in quell’edizione, come accade oggi, il barone se la sarebbe dovuta guadagnare con almeno un’altra vittoria.

Guardando il tabellone a questo punto, quasi qualsiasi giocatore sarebbe impallidito: nella parte alta, lo scontro fra due moschettieri, Henri Cochet e Jean Borotra; nella parte bassa, l’avversario designato per De Morpurgo era Vincent Richards, che aveva eliminato ai quarti nientemeno che Rene Lacoste. Doppista prima che singolarista – aveva vinto lo US Open 1918 in coppia con Bill Tilden a…quindici anni, ovviamente un record), Vinnie fu quell’anno il protagonista assoluto delle Olimpiadi, campione e nel singolare e nel doppio, finalista del doppio misto. Nel 1927, fu il primo tennista di una certa caratura ad entrare nel mondo del professionismo; iniziava allora la faida fra due mondi (quello degli amateur e quello delle star dei tour internazionali) che avrebbe avuto importanti ripercussioni sul mondo del tennis e anche, come vedremo, sul tennis a cinque cerchi. Contro Richards De Morpurgo non poté molto: finì per perdere in quattro, 3-6 6-3 1-6 4-6. Mancava però ancora una partita: la finale del terzo posto. Il moschettiere perdente, Jean Borotra, era conosciuto come il Basco Volante, per la sua tendenza a “volare” sul campo e per via del caratteristico copricapo che gli copriva la chioma. Vinse tutto, in qualsiasi categoria, salvo lo US Open in singolare, che gli sfuggì nella finale del 1926. La sfida fra lui e de Morpurgo fu una lotta tremenda; niente, comunque, in confronto ad un’altra grande battaglia nella quale Borotra si distinse per grande coraggio: una battaglia vera, la più strana, forse, della Seconda guerra mondiale, combattuta il 5 maggio 1945 (agli sgoccioli dunque del conflitto) presso il castello di Itter, in Austria. Da una parte, la 17esima divisione delle Waffen-SS assediava il castello; a difenderlo, truppe statunitensi e, singolarmente, soldati della Wermacht tedesca, compresi gli ex prigionieri francesi, fra cui l’ex primo ministro Edouard Daladier e, appunto, il basco volante. Ma tornando a noi: la finale per il terzo posto si concluse al quinto set, dopo ore di battaglia sulla terra dello Stade des colombes: finì 1-6 6-1 8-6 4-6 7-5 per il Barone, che conquistava così la medaglia di bronzo, fra i fischi del pubblico francese.

Le vicende di Parigi 24 hanno ispirato Momenti di gloria, il film di Hugh Hudson del 1981, che narra della storia degli universitari di Cambridge che si allenarono per parteciparvi; nel nostro piccolo, rimarrà l’anno della prima medaglia olimpica del tennis italiano ai giochi, il bronzo del Barone. Non poteva sapere, de Morpurgo, che il suo record sarebbe rimasto ineguagliato fino…ad oggi. E che il punto della vittoria con Borotra sarebbe stato l’ultimo giocato ufficialmente alle Olimpiadi fino al 1988. Seul, Corea Del Sud: la nostra prossima tappa.

Le citazioni fra virgolette provengono da 500 anni di tennis, di Gianni Clerici, in particolare dal capitolo “Noi tireremo dritto”

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