LIGNANO. Rokia non è affatto uno pseudonimo, no, è proprio il suo vero nome (all’inizio, in verità, ne aveva uno d’arte: Clarine Jay), «poi ho preferito tenermi il mio — dice la giovane narratrice — tanto non ce n’è un altro uguale in giro».
Il tornado Rokia ha messo a soqquadro il mondo della letteratura, diventando, in un nonnulla, la più amata dai teenager. Per i firma copie fiumane di babies attendono pazienti un autografo o un selfie.
Guilty. Drunk in love (Magazzini Salani) è il terzo titolo della venticinquenne bergamasca di origine marocchina.
L’arrivo a Lignano del book accompagnato dalla sua creatrice è previsto per giovedì 4 giugno, alle 18.30, al PalaPineta per gli “Incontri con l’autore e col vino”, la rassegna promossa dall’Associazione Lignano nel Terzo Millennio presieduta da Giorgio Ardito.Si degusteranno i vini dell’azienda Butussi. Dialogherà con l’autrice la giornalista e scrittrice Fabiana Dallavalle.
Risalendo le origini del tutto raggiungiamo idealmente la sua infanzia. Ed è lì che la decenne Rokia incontra la scrittura. Dico bene?
«La passione prende quota da ragazzina, certo, anche merito della mia insegnante di italiano delle elementari che mi aiutò con i compiti e con la lingua: a casa mia non erano in grado di farlo E così ogni fine settimana la maestra mi affidava l’impegno d’inventarmi una storia».
Entrambi i suoi genitori sono stranieri?
«Certo, quando mio padre fu trasferito in Italia prima sposò mamma e poi scelsero Bergamo per vivere. Città dove io sono nata».
C’è una laurea in scienze infermieristiche, è corretto?
«Assolutamente sì. Non prevedendo il futuro quando mi iscrissi non avevo idea che la mia vita avrebbe deviato in un modo così inaspettato. Immaginavo di poter racchiudere i miei racconti in un libro, un misto di sogno e di desiderio, ecco, però mai avrei pensato di campare scrivendo».
Un successo inaspettato. I suoi sostenitori più accaniti sono i ragazzi dai dodici ai diciotto anni se non sbaglio.
«Anche più grandi. Spesso mi trovo a rispondere a trentenni, quarantenni, poi, per carità, lo zoccolo duro è quello che dice lei. Non credo di avere un target ben preciso trattando tematiche comuni a tutti come il lutto, l’ansia, la paura inseriti in un romanzo fantasy o in un paranormale con sempre una storia d’amore a governare la trama».
In questi suoi anni italiani si è sentita integrata dal Paese che l’ha vista nascere, oppure è una ragazza con lo hijab?
«Ho sempre avuto la difficoltà nel definirmi. Quando passeggio per le strade italiane mi dicono marocchina, mentre quando sono in Marocco divento italiana. A questo punto non mi sento né l’una e né l’altra, ma ho entrambe le radici dentro me: nasco qui, ma con origini lontane. Da piccola pareva che non potessi essere un ibrido, costretta a optare per forza tra bianco o nero. Adesso ho capito che rappresento entrambi i ceppi, italiano e marocchino, e va bene così».
Con quale letteratura è cresciuta?
«È stato Geronimo Stilton a farmi compagnia da bimba. Nell’adolescenza mi sono avvicinata alla poesia e ai grandi classici tuffandomi pure nel fantasy, giusto per non farmi mancare alcunché. E se devo affastellare dei titoli che ho nel cuore dico “Il cacciatore d’aquiloni”, “Io non ho paura”, “1984” di Orwell, fra i tanti, mentre la mia parte romance segue più le serie tv in un miscuglio avvincente che provoca la mia scrittura. Ed è stato coniato un termine nuovo: romantasy».
Curiosiamo nella stanza della creatività. In che modo prende forma un pensiero?
«Ho un quaderno cartaceo per ogni argomento e quando sento di avere in testa un canovaccio di vicenda scelgo l’inizio e la fine, ciò che scorre in mezzo è da costruire. Spesso appunto i nomi dei protagonisti man mano che individuo la loro corretta reputazione. Fatto ciò mi lascio trasportare dalle intuizioni. Partorisco scrivendo. E se ne va un anno, all’incirca. La fase successiva è il confronto con la mia editor Isabella, figura fondamentale per navigare sicuri fra le onde dell’estro».
È diventata ricca?
«Mi sono arricchita di sapere, questo sì. I guadagni mi permettono di vivere senza dovermi preoccupare di trovare un secondo lavoro. Ciò che mi rende davvero felice, però, sono le testimonianze d’affetto della gente. Valgono più di qualsiasi assegno».