Non è vero che alla Lombardia serve il controllo societario di Trenord cioè il 50+1 delle azioni: grazie ai patti parasociali, già oggi la Regione ha il potere di designare l’amministratore delegato (l’ultrastipendiato Piuri) e dispone di tutte le leve di comando; inoltre programma i servizi e compra gli stessi.
Sono 13 anni che la Lombardia sopporta un pessimo servizio di trasporto ferroviario regionale da quando cioè, sotto la bandiera del federalismo ferroviario, Formigoni ebbe la bella idea di fare il matrimonio tra Ferrovie Nord e Ferrovie dello Stato. L’aver messo insieme due aziende che erano due sistemi burocratici e amministrativi diversi e due vecchi carrozzoni è stato un disastro organizzativo, tecnico ed economico. L’incrocio di due mentalità completamente diverse – una ferrovia faceva tanti treni a corta distanza, l’altra quella statale meno treni ma a lunga distanza, due orari di lavoro diversi, due contratti di lavoro e normative diverse, due “padroni” uno a Milano e uno a Roma – ha fatto sì che il “patatrac” si rendesse subito evidente nonostante un malcelato federalismo che aveva illuso anche la sinistra (basti ricordare l’eccitazione federalista del compianto dirigente Pd Penati) e anche purtroppo dei sindacati, ad esclusione della Cisl che fino all’ultimo si era opposta alle nozze.
Già alla fine del primo anno di matrimonio ci fu la prima Caporetto. L’introduzione del nuovo software aveva provocato il blackout dei treni una settimana di disagi e disservizi con la conseguente soppressione di centinaia di treni al giorno ed enormi ritardi. Quei giorni costarono danni economici per un valore di circa 3 milioni di euro quotidiani, tra costi interni ed esterni, per un totale di 12 milioni di euro per il mancato funzionamento del sistema “goal rail”. A questi costi vanno aggiunte le spese individuali che i pendolari sopportarono, perché costretti a scegliere l’automobile. Solo successivamente fu reintrodotto il vecchio sistema di assegnazione dei turni dei ferrovieri.
Mentre in tutta Europa i servizi ferroviari venivano messi a gara e liberalizzati – i risultati si potevano vedere dalla Scandinavia ai Paesi Bassi, alla Germania, mentre nel Regno Unito la privatizzazione spinta veniva corretta con una liberalizzazione regolata o dallo Stato o dalle regioni – la Lombardia decise di unire due monopoli, i 300 km di rete delle ferrovie Nord e i 1500 km di rete delle ferrovie dello Stato, facendone un maxi monopolio che nessuno ha più saputo gestire e programmare. Da da allora le cose andarono pressappoco così: aumentavano i costi di gestione più dell’aumento dei chilometri percorsi, aumentavano i ritardi, aumentavano le soppressioni, aumentavano i disagi per i passeggeri. Nonostante questo, a detta della Regione, questa era la migliore ferrovia d’Italia.
Nell’indifferenza di Ferrovie dello Stato che avevano raggiunto il loro primo grande risultato: avere la certezza dei ricchi contributi pubblici regionali derivanti da un contratto di servizio garantito e da una concessione decennale (recentemente rinnovata tra le sole obiezioni dell’Antitrust), e quindi evitare una difficile negoziazione annuale tra governo centrale e governo regionale, all’epoca gestito dal potente centrodestra di Roberto Formigoni. L’ex governatore aveva promesso più puntualità, più qualità, meno costi e più pace sindacale; da allora nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto.
Grazie ad un enorme spesa per il rinnovo del materiale rotabile, arrivarono i primi nuovi treni targati Ansaldo cioè dalla vecchia azienda a partecipazione statale che produceva treni per tutte le ferrovie italiane, con le stesse caratteristiche e in tempi lunghissimi. Nonostante i benefici migliorativi che ebbero i lavoratori, che si trovarono il loro contratto di tranviere con l’aggiunta di quello dei ferrovieri e viceversa quello dei ferrovieri con i benefici di quello dei tranvieri, il matrimonio tra le due aziende generò una conflittualità sindacale mai vista che portò ad un numero incredibile di scioperi (quasi uno al mese), la dirigenza incapace di decidere se essere impresa industriale o di pubblica utilità, se trasportare pendolari, merci o turisti. Questa missione non è stata mai intrapresa e ancora oggi se ne stanno pagando le conseguenze: non aver capito che questo problema di fondo ha portato ad una deresponsabilizzazione da parte delle forze prima di tutto di opposizione e poi di quelle di governo, per non parlare degli enti locali e dei grandi Comuni delle province lombarde.
Stessa cosa avvenne con i governi di Roberto Maroni ed ora con quelli di Attilio Fontana. Grazie ad una sinistra piegata all’esigenza dettata dai sindacati confederali di evitare la gara, il centrodestra ha avuto gioco facile nel non apportare cambiamenti strutturali. Non si è fatta neppure una riorganizzazione delle diverse responsabilità di manutenzione, dei turni di lavoro, dell’integrazione degli orari dei treni e dell’offerta. Ogni modifica ha avuto solo un sapore: cambiare i dirigenti e i funzionari in base alle lotte di potere interne o sindacali a prescindere dalle capacità tecniche. Insomma i più fedeli a questo o a quello andavano avanti. La liberalizzazione è stata scambiata per privatizzazione e ora ci teniamo il peggior gestore pubblico possibile, Trenord.
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