«Ne danno il triste annuncio tutti coloro che gli hanno voluto bene».
Non il nome di un figlio, né di una compagna, né di un amico.
Sull’epigrafe di Dino Calzavara, 80 anni, non compare nessun nome proprio di persona.
Dino è morto mercoledì 19 giugno, nel tardo pomeriggio, investito da un’auto mentre era in sella alla sua bicicletta, una botta in testa gli è stata fatale. Per due giorni, però, il suo è stato un corpo senza nome.
Nessuno aveva segnalato la sua scomparsa, nessuno lo aspettava a casa per cena.
È stato solo grazie ad un fotogramma diramato dalle forze dell’ordine che una persona ha chiamato per dire che quell’uomo un nome ce l’aveva: si chiamava Dino Calzavara, viveva in centro storico in via San Liberale a pochi passi da piazza Duomo in un condominio di 17 appartamenti, oltre al suo.
Diciassette famiglie che la sera del 19 giugno non si sono accorte dell’assenza dell’inquilino del piano terra.
Quella persona così timida e schiva che salutava a malapena e velocemente, solo i convenevoli indispensabili, resi obbligatori da un galateo condominiale, mai scritto.
Ci sono voluti 12 giorni, poi, perché qualcuno si facesse avanti e si occupasse del funerale, che si terrà il 2 luglio alle 9.30 nella chiesetta del cimitero di San Lazzaro.
È stata un’amica a contattare la casa funeraria e a predisporre le esequie. Ma la donna non intende svelare la sua identità, tanto meno raccontare il legame che aveva con il povero Dino, ha solo scelto di farsi carico della cerimonia dopo oltre 10 giorni di obitorio e di silenzio.
Silenzio che è anche il fil rouge che attraversa l’esistenza dell’anziano.
Silenzio nella sua vita da single, silenzio nel momento della morte, silenzio nel post mortem.
Dino Calzavara ha vissuto da fantasma ed è morto da fantasma. Solo.
Eppure chi lo ha conosciuto dice che quell’uomo anziano, quella condizione non l’ha subita, che non era una vittima della solitudine.
Dino compiva gli anni ad inizio gennaio, ne aveva 80. Ha vissuto insieme alla madre nel quartiere di Santa Bona, finché la donna è stata in vita.
Poi si è trasferito nell’elegante appartamento di via San Liberale prima in affitto e poi da proprietario.
Era un ragioniere ed è stato un dipendente di Cassamarca nella filiale di Silea.
Per una malattia aveva perso l’orecchio destro, il particolare che ha reso possibile il riconoscimento.
La sua passione era la bicicletta, usciva anche tre o quattro volte al giorno e faceva sempre gli stessi giri: il panificio di piazza Pio X, passava davanti alla pasticceria Ida, viale Monfenera e poi verso viale Europa. Lo aveva fatto anche il giorno della sua morte.
«Ci incontravamo nell’interrato, io portavo giù i bidoni dell’immondizia e lui metteva via la sua bicicletta» racconta Luigino Vendraminetto, il vicino del primo piano, «Dino aveva scelto di stare da solo e stava bene, aveva subito anche una brutta malattia e ne era venuto fuori da solo. Stava bene. Certo, se si fosse ammalato sarebbe stato difficile, senza una famiglia non avrebbe avuto un supporto. Era schivo e viveva in solitudine, ma è sempre stato così. Era sordo e teneva il volume della televisione altissimo».
Diverso è il parere del suo dirimpettaio, il signor Silvio Merlino: «Viveva qui a fianco a me, ma in tanti anni non abbiamo mai scambiato grandi discorsi, solo un educato buongiorno o buonasera, eravamo due sconosciuti anche se abbiamo vissuto a pochi metri di distanza per trent’anni. Ecco cosa ci attende, solitudine pur in mezzo alla gente».