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Genova, 30 giugno 1960: la storia del congresso del Msi mai fatto è da “rivedere”, contro ogni strumentalità

“Quella piazza è sempre attuale”: è questo il tormentone, targato Anpi e Camera del lavoro,  che segna, anche quest’anno, nel capoluogo ligure, l’anniversario, 64 anni dopo, del mancato congresso nazionale del Msi a Genova.  Che senso ha  “celebrare”, con la pompa delle grandi occasioni, un avvenimento a dire poco oscuro e comunque al limite dell’”apologia […]

L'articolo Genova, 30 giugno 1960: la storia del congresso del Msi mai fatto è da “rivedere”, contro ogni strumentalità sembra essere il primo su Secolo d'Italia.

“Quella piazza è sempre attuale”: è questo il tormentone, targato Anpi e Camera del lavoro,  che segna, anche quest’anno, nel capoluogo ligure, l’anniversario, 64 anni dopo, del mancato congresso nazionale del Msi a Genova.  Che senso ha  “celebrare”, con la pompa delle grandi occasioni, un avvenimento a dire poco oscuro e comunque al limite dell’”apologia di reato” , quali furono le giornate del giugno ’60 genovese?

In realtà, anche in questo caso, si tratta dell’ennesimo paradosso del nostro Paese, con  una Storia che non passa, viziata da interessi e strumentalità di parte, “sempre attuale” ad uso di certa politica corrente, molto abile a cavalcare le  “ricostruzioni” faziose. Da qui il nostro invito a tornare ai fatti, alla realtà storica.

Cominciamo dal contesto politico. Nel giugno 1960 la vera partita politica in gioco non è quella che riguarda il Msi, ormai avviato, sotto la guida di Arturo Michelini, a realizzare una politica “entrista”, sfociata nell’appoggio al Governo presieduto dal  Dc Fernando Tambroni,  ma i più generali equilibri nazionali, con al centro la questione dello “spostamento a sinistra” dell’asse del governo, la rottura della “pregiudiziale anticomunista”, la neutralizzazione del ruolo dei cattolici “integrali”.

La scelta di Genova, quale sede del VI congresso missino e fattore scatenante della protesta antifascista e antigovernativa,  appare perciò come il classico pretesto,  intorno al quale costruire – secondo la tradizionale tecnica propagandistica della “guerra rivoluzionaria” – la mobilitazione di massa, laddove  da parte degli ambienti missini,  fino ai giorni immediatamente precedenti il congresso, non c’era alcuna  consapevolezza del pericolo né alcuna volontà provocatoria.

Scrisse  Giano Accame,  testimone “da destra” degli avvenimenti del giugno 1960 (“La lezione di Genova: lettera di Giano Accame a Pino Romualdi” , in “L’italiano”, n. 7-8, luglio-agosto 1960):  “So che da molte federazioni i delegati sono partiti con mogli e bambini, perché oltre al congresso, che si presentava calmo per la quasi unanimità con cui era stata accettata la mozione ‘democratica’ della direzione nazionale, pensavano di far vedere Genova,  il suo porto, i pittoreschi carruggi,  le bellezze della Dominante alle famiglie. Questo era esattamente il clima della ‘provocazione’. Ammettere a posteriori l’esistenza di una tale mentalità da scampagnata è imbarazzante, ma è un gesto di autocritica che dobbiamo compiere, perché rientra nel novero di quelle verità che è meglio scoprire apertamente, per riderci sopra, magari amaramente, e porvi rimedio alla prossima occasione”.

Una settimana prima del congresso – ebbe a notare  uno dei protagonisti dell’epoca,  il deputato del Msi Gianni  Roberti (L’opposizione di destra in Italia – 1946-1979, Adriano Gallina Editore, Napoli 1988) “… alla Camera, in seduta pubblica, noi ne avevamo reso nota la celebrazione, chiedendo al Presidente che in quei giorni, come d’uso,  non si tenesse seduta: il Presidente aveva risposto aderendo alla richiesta: nessuna voce di protesta o di dissenso si era levata dai banchi,  comunisti e di sinistra”.

Pochi giorni dopo il quadro muta completamente, mentre sono  diffuse – ad arte – una serie di notizie, che trasformano l’assise missina in un’iniziativa provocatoria nei confronti della Resistenza e dell’antifascismo.

La scelta della sala del congresso (il teatro Margherita) viene immediatamente collegata alle vicine lapidi, sotto il Ponte Monumentale,  in ricordo dei caduti della Resistenza.

In realtà il Msi aveva sempre tenuto i suoi comizi nella centrale Via XX Settembre, dove all’epoca erano concentrate le principali sale pubbliche cittadine, senza alcun problema. La scelta della sala del teatro Margherita era solo legata alla sua capienza (circa mille posti).

E’ fatta circolare la notizia che a presiedere il congresso sarebbe stato chiamato Carlo Emanuele Basile, prefetto di Genova dal 1943 al 1944,  in uno dei momenti più drammatici e sanguinosi della guerra civile.

In realtà il nome di Basile, che non era un dirigente del Msi, non compare nell’elenco dei delegati al VI congresso, pubblicato dal “Secolo d’Italia”, né esistono indicazioni ufficiali sulla sua presenza a Genova. Al margine va peraltro notato che, accusato, dopo la guerra di essere stato il responsabile di numerose azioni criminose, Basile fu prosciolto, nel 1947, dalla Corte d’Assise di Venezia con formula piena.

Si parla poi della presenza al congresso del Principe Junio Valerio Borghese, comandante della X Mas durante la Rsi.

In realtà Borghese aveva rotto ogni rapporto con il Msi nel 1956, proprio a seguito della “svolta moderata” impressa da Michelini al partito.

Circola voce dell’arrivo di 2000 missini, con funzione di difesa dei delegati.

In realtà la dirigenza missina rifiuta di seguire ogni ipotesi extralegale, confidando, proprio per il suo ruolo “di governo”, di essere garantita dalla presenza delle forze dell’ordine e dal Ministero degli Interni.

E’ infine diffusa  la notizia, intorno al 25-26 giugno, che i membri dell’esecutivo dell’Anpi sarebbero stati arrestati.

In realtà non viene ovviamente registrata alcuna azione in questo senso.

Alla progressiva azione propagandistica da parte della sinistra fece  riscontro una puntuale organizzazione della piazza. Il Pci, che si vuole defilato  rispetto all’impegno più diretto dell’Anpi e della Cgil, ha un ruolo essenziale nella regia delle manifestazioni. Fonti “fiduciarie” parlano di gruppi di ex partigiani fatti affluire dalle province di Alessandria, Savona, Imperia, La Spezia, Parma, Cuneo, Torino, Milano, “per poter fronteggiare le forze di polizia”.

I rapporti dei Carabinieri segnalano squadre di 5-10 uomini, ciascuna con un capo e perfettamente coordinate, in grado di rifornirsi di sassi, bottiglie molotov, spranghe e dotate anche di un servizio medico organizzato per evitare che i manifestanti andassero in ospedale e venissero identificati.  Nel Rapporto della Prefettura di Genova al ministro dell’Interno, “riservatissima personale” del 3 luglio 1960 (citata da Adalberto Baldoni, La Destra in Italia – 1945-1969, Editoriale Pantheon, Roma 1999), il Prefetto Pianese scrive sui manifestanti del 30 giugno: “La loro tattica è quella di venire a contatto diretto e a scontri frontali con le forze di polizia (…). Da lontano, da appostamenti, da cornicioni, le assalgono con grosse pietre, mattoni, bottiglie, spranghe di ferro, etc. cercando di frazionarle, facendosi inseguire, per poi assalire isolatamente piccoli reparti e mezzi in difficoltà, o attirandoli in luoghi predisposti per l’imboscata”.

Ugualmente significativo l’articolo, pubblicato, il giorno seguente gli scontri del 30 giugno 1960, dal quotidiano  “Il Secolo XIX” (“Ore di tumulti e di sanguinosi tafferugli nel centro di Genova durante lo sciopero di protesta contro il congresso del Msi”), che, avendo la propria sede in piazza De Ferrari, luogo degli scontri, può utilizzare un osservatorio privilegiato. Nella dettagliata cronaca del quotidiano genovese si parla del linciaggio a cui sono sottoposti gli agenti di polizia, del capitano Francesco Londei, quasi affogato nella vasca centrale e poi abbandonato svenuto a terra, del poliziotto Emanuele Rimaudo che ha la  mandibola sfondata dal colpo di una trave, delle camionette date alle fiamme, dei ganci da portuale usati come armi (“un agente ha avuto la bocca letteralmente strappata da quell’arma, un altro ha riportato un foro in un braccio”). Il bilancio degli scontri (iniziati dopo le 15 e protrattisi fino alle 20) è gravissimo, con novanta poliziotti feriti, centoventotto contusi, diciotto automezzi distrutti o danneggiati.

Il processo per i fatti di Genova, che si conclude il 19 luglio 1962, porta alla condanna di 43 imputati, per resistenza, oltraggio e danneggiamenti.

L’obiettivo è stato comunque raggiunto. Il congresso a Genova non viene tenuto, il Msi “rompe” con Tambroni, i nuovi governi di centrosinistra sono alle porte.

Il senso delle vicende genovesi, al di là di ogni interpretazione “mitica” (sulla città in piazza per la libertà e la democrazia) sta nelle “Note di propaganda”, il quindicinale della sezione centrale e propaganda del Pci (n. 7, 4 luglio 1960),  diffuso a ridosso del 30 giugno genovese: “… l’ondata combattiva e larghissimamente unitaria di antifascismo  che contro il congresso del Msi ha animato la lotta di Genova, con la partecipazione e la solidarietà di altre città, deve accentrarsi nel contenuto della nostra propaganda, insieme alle questioni su cui si sviluppano le lotte del lavoro e insieme alla lotta per la distensione contro le basi straniere, l’attacco vigoroso per abbattere subito il governo Tambroni”. Da qui l’invito a “fare leva sulle tradizioni locali della Resistenza” e contro “il connubio tra la Dc e la sopravvivenza fascista”.

La prospettiva vera ? “In questo modo l’attacco antifascista diventa anche un terreno su cui ricercare e sviluppare le convergenze e le intese tra le forze di sinistra e democratiche per l’affermazione di nuove maggioranze nei comuni e nelle province nelle prossime elezioni amministrative”.

E’ questo il senso reale dei fatti di Genova e delle vicende politiche italiane, dal 1960 in poi: un’occasione perduta per il Msi, che patirà per decenni un sistematico ostracismo politico,  una nuova legittimazione per il Pci, che vedrà ridimensionata  la pregiudiziale anticomunista, nel nome dell’unità antifascista, strumentalmente sbandierata, ieri come oggi. Nel nome di una piazza che alcuni vogliono “sempre attuale”.

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