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Sarajevo 1914. Il colpo di pistola nella storia

Il 28 giugno 1914 l’attentato contro l’arciduca Francesco Ferdinando, principe ereditario dell’Austria-Ungheria, e la moglie Sofia fu l’innesco per lo scoppio della Prima guerra mondiale. Nella città della Serbia il dramma fu favorito da errori e superficialità. Ma un’epoca era già finita.

Che provocasse l’esplosione della Prima guerra mondiale era, forse, difficile da immaginare, ma che la visita a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando potesse finire nel sangue era da mettere nel conto. In questo senso, l’attentato del 28 giugno 1914 va considerato un evento così prevedibile da meritare la qualifica di «annunciato».

Già la data appariva inopportuna. Quello era il giorno dedicato a Vidovdan - San Vito - e si festeggiava da quando - nel 1389 - l’esercito serbo venne massacrato dalle forze turche. Fu una disfatta che segnò la fine della loro indipendenza ma che, da quel momento, animò i sogni e le illusioni dei vinti.

Per 500 anni (abbondanti) la battaglia venne raccontata dai cantastorie al ritmo di una cantilena che cavavano da una specie di banjo a due corde. Quelle antiche strofe rendevano ragione di ferite che i secoli non avevano rimarginato e suscitavano sentimenti di irremovibile patriottismo. Ai giovani che l’ascoltavano portava un’iniezione di fierezza. E non c’è da scomodare la sociologia per rendersi conto di quanto orgoglio esista in una nazione che non soltanto ricorda ma, addirittura, celebra le sconfitte. Che, proprio il 28 giugno, il principe ereditario dell’Austria-Ungheria - Paese ritenuto «colonizzatore» - potesse attraversare Sarajevo ebbe il sapore della provocazione. Destinata ad alimentare un’atmosfera di rivincita.

Gli studenti, fantasticando sulla rivoluzione che avrebbero animato, si passavano di mano la foto dell’arciduca per commentare: «La zucca è matura». Stavano prendendo corpo una serie di progetti di attentati. Attentati, al plurale, perché ognuna di quelle cellule di sovversivi minorenni (o quasi) si esaltava all’idea di un’azione risolutiva che potesse trasformarsi in un’occasione di martirio (per loro stessi) e nella scintilla della riscossa (per tutti gli altri). Alle autorità austriache non poteva sfuggire la dimensione e l’intensità dell’eccitazione che si andava accumulando. Guardarono dall’altra parte e, per occupare il tempo che avrebbero dovuto dedicare alla sicurezza della missione, si persero nella verifica di minuzie francamente irrilevanti. Il peso di Sua Altezza? E quanto tiene lunghe le staffe? 83,5 chili e 72 centimetri.Occorrono due «guidoni», lebandierine per l’automobile? Ovviamente: con i colori della bandiera austriaca. E avrebbe gradito ascoltare della musica durante il banchetto? Beh! Si può fare... un quartetto d’archi con proposta di melodie viennesi. E quale vino sarebbe stato di suo gradimento? Un bianco secco. Da servire fresco o a temperatura ambiente?

I responsabili della polizia disponevano di testimonianze che avvertivano di una pericolosa agitazione dei nazionalisti ma non ne tennero conto e lasciarono che Francesco Ferdinando andasse incontro al destino. Impossibile che si trattasse di sola incuria. Tanta superficialità in un Paese mediterraneo - per dire l’Italia - avrebbe potuto verificarsi con il solo concorso di abnormi casualità. Ma, con gli austriaci: no. Loro avevano - e hanno - testa e mentalità anglosassone: precisi fino alla pedanteria e rigorosi fino all’eccesso. Nessun dubbio che la trascuratezza fosse accettata perché l’arciduca, in patria, vestiva i panni del personaggio scomodo.

Proponeva di coinvolgere i Paesi slavi nell’amministrazione delle istituzioni in modo da togliere loro quello spirito di rivalsa che li animava. In fondo, l’ostilità dell’Ungheria era stata risolta trasformando lo stato da austriaco in «austro-ungarico». Alle due teste d’aquila della bandiera nazionale non ne poteva spuntare una terza con l’evoluzione dell’impero in austro-ungarico-slavo? Col senno «del poi», l’idea avrebbe risolto una quantità di problemi ma, al tempo, non piacque a nessuno. Vienna che si era dimezzata il potere per offrirlo a Budapest, avrebbe dovuto ulteriormente ridimensionarsi. Perché? E gli ungheresi - avendo conquistato un ruolo alla pari - dovevano rischiare di ritrovarsi al terzo posto di tre? Quell’arciduca con proposte così fantasiose preoccupava. Lo consideravano una mina vagante da rendere inoffensivo. Lo sciovinismo (in Bosnia) e il fastidio (in Austria) finirono per allearsi.

Il Gavrilo Princip che, materialmente, sparò a Francesco Ferdinando e alla moglie Sofia, arrivò a Sarajevo da Belgrado, senza un soldo in tasca ma con uno zaino pieno di esplosivo. Aveva 19 anni. Si sentiva preda dell’esaltazione che ebbero tanti assassini, prima e dopo di lui. Del commando che aveva programmato di ammazzare il pretendente al trono era il più determinato, ma non il capo. In realtà, di capi non ne esistevano. Erano un manipolo di ragazzotti, neanche maggiorenni, cresciuti alla scuola del nazionalismo selvaggio, impegnati dimostrare - prima di tutto a loro stessi - di essere già grandi.

Ma, a voler proprio individuare quello con maggiori responsabilità organizzative, andrebbe indicato Danilo Ilic, orfano di un padre che faceva il ciabattino e figlio di una lavandaia. Per tirare a campare, si era adattato a fare lo scaricatore di porto, il facchino, il muratore. Aveva anche distribuito giornali e richiamato spettatori per un circo di girovaghi. Lui contattò Mehmed Mehmedbasic, un musulmano di 27 anni (quindi, un «vecchione» rispetto agli altri). Poi reclutò Nedeljko Cabrinovic e Vaso Cubrilovic. E, infine, inserì nel gruppo Cvjetko Popovic, il più giovane di tutti: 16 anni. A leggere le carte del processo, affrontarono l’attentato come fosse stata una goliardata. Si vantavano con gli altri studenti di un colpo che avrebbe lasciato il segno. Ma gli amici li canzonavano. «Ecco gli eroi che vanno a uccidere l’erede al trono». Ma loro, di rimando: «Domani, state alla larga dal lungo fiume... se vi è cara la pelle...».

Perché le bombe funzionassero, era necessario togliere un cappuccio e realizzare l’innesco sbattendole forte sul selciato. Lo scoppio in dodici secondi. Per questo, consigliavano di contare fino a dieci prima di lanciare nonostante il pericolo di rimanere con l’esplosivo in mano. Gli ordigni non erano adatti per un attentato di quella portata. Infatti, il primo tentativo di colpire l’arciduca fallì. Sul lungofiume Appel, fu Nedeljko Cabrinovic a lanciare l’ordigno. L’autista vide «una cosa» volare e, istintivamente, pigiò sull’acceleratore. L’ordigno urtò il parafango e il conte Harrach, a tutta prima, pensò che si fosse forata una gomma. «Bravo!» se la prese con l’autista. «Adesso dobbiamo fermarci!». Ma, subito: l’esplosione e le grida della gente.

L’attentatore cercò di fuggire ma lo inseguirono e lo catturarono. Aveva in tasca una dose di cianuro che inghiottì ma il veleno, forse mal conservato, non fu sufficientemente efficace. Lo fece vomitare per un’ora ma non lo uccise come lui avrebbe voluto. Il corteo delle auto, dapprima scompaginato, si rimise in ordine e s’infilò nel cortile del municipio. «Questa è la vostra accoglienza?» urlò l’arciduca. «Vengo amichevolmente in visita e qualcuno mi lancia una bomba. È oltraggioso!»

Ma, a quel punto, cosa fare? Si scontrarono due scuole di pensiero. Alcuni - la maggior parte - considerarono che il pericolo fosse passato e, dunque, si poteva riprendere il programma interrotto. Pochi altri avvertirono che il rischio restava alto: meglio accontentarsi di aver subito un danno contenuto e terminare la visita. Così, fra due proposte, ne venne adottata una terza di mediazione. Né proseguire né interrompere ma partecipare solo agli appuntamenti in spazi ampi dove le aggressioni non potevano avere luogo.

Fu necessario modificare il tragitto ma i cambiamenti di percorso non vennero comunicati agli autisti che seguirono le vecchie indicazioni. Perciò, sul lungofiume, anziché tirare dritto verso la Miliazka, girarono a destra in via Francesco Giuseppe. In quel momento, svoltò anche la Storia. «Halten!». L’autista della prima auto venne corretto: aveva sbagliato strada e doveva fare marcia indietro. Si fermò ma la seconda e la terza auto gli finirono sotto e pure loro, in una viuzza assai stretta, iniziarono a manovrare per tornare indietro. Gavrilo Princip era proprio lì e si trovò l’arciduca di fronte. Aveva la bomba ma era avvitata e ci voleva troppo tempo per innescarla. Aveva anche una pistola e fece fuoco. Un proiettile trapassò la carrozzeria dell’automobile, forò il divanetto di pelle e uccise Sofia. La seconda palla colpì Francesco Ferdinando al collo.

Nei giorni precedenti, Gavrilo Princip, sparando per impratichirsi, non riusciva a centrare il tronco di una quercia da sei metri di distanza.

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