Al Foro Italico lo zainetto dell’appassionato di tennis profuma di crema solare e di mortadella. Era il lunedì mattina dell’edizione del 2017, gli spalti erano praticamente vuoti e avevo provato a nascondermi in un angolo all’ombra sulla Grandstand Arena, o chissà come diavolo si chiamava ai tempi. Avevo provato e avevo fallito, perché quel campo era un forno, l’aria era ferma, i seggiolini scottavano, l’ombra non esisteva e oltretutto la crema era scaduta da tre anni, ammesso possa scadere, la crema solare.
Cuevas-Mannarino era il manifesto dei veterani che sapevano scherzare con la palla, l’esempio più onesto di una partita che rifiutava il tifo del punteggio: in questi casi- lo prevede il protocollo del nerd- bisogna solo mettersi comodi a bordocampo, per guardare i colpi, per seguire i movimenti, per studiare le geometrie della tattica e per ascoltare solamente il rumore del gioco e di conseguenza dell’aria, e la voce dell’arbitro che ti aggiorna con i numeri si trasforma nel paesaggio superfluo del match.
La divisa ufficiale del nerd del tennis l’ha disegnata Max Pezzali, ed è una divisa che sa di Autogrill. La divisa del nerd del tennis prevede infatti il cappellino macchiato di terra battuta, le occhiaie di una notte in viaggio e lo zainetto Invicta scolorito degli anni ’90: il nerd all’ingresso rifiuta la brochure con l’ordine di gioco, l’ha imparato ovviamente a memoria la sera precedente, prima di spegnere la luce. Irride il carrozzone delle pre-qualificazioni ma ne segue lo sviluppo, di nascosto, perché non riesce a farne a meno. Quando vola all’estero e arriva in albergo controlla immediatamente se la televisione prende Supertennis, perché la speranza è l’ultima a morire. Il nerd conosce tutto dei giocatori italiani, anche se finge di non tifarli.
Il nerd è sempre in anticipo, e quando organizza la trasferta a Montecarlo allunga la strada verso il circolo per godersi le curve del Gran Premio. Il nerd è burbero e tennisticamente un po’ maschilista: detesta le mandrie di bambini a caccia di autografi, riconosce le facce dei doppisti ma- sia chiaro- non guarda la WTA, a parte Jabeur. Il nerd non concepisce la pausa pranzo, perché il tennis non si ferma, e di conseguenza riempie lo zainetto di panini con la ‘mortazza’, acquistandoli di prima mattina nello storico “Alimentari” di Ponte Milvio. Il nerd si lamenta degli sguardi eleganti che indossano i pass gratuiti, non mette mai piede sul Centrale ed è fin troppo previdente- ombrello, felpina, k-way e nel caso anche calzamaglia, perché la serata romana sa essere pungente– e un po’ sbadato, e di conseguenza sceglie sempre il silenzio peggiore per aprire il pacchetto di patatine, 5 pari al terzo, palla break, facendosi pure riprendere dall’occhiataccia severa di Carlos Bernardes.
Il nerd del tennis rimpiange Melzer e soprattutto Dolgopolov, e quando beve un bicchiere di troppo comincia a parlare del talento sprecato di Adelchi Virgili (se sapete di chi sto parlando vi mando un abbraccio direttamente dallo schermo) e proprio per questo motivo si trova lì, sotto il sole romano, per gustarsi Cuevas-Mannarino: l’uruguaiano controlla la partita, perché siamo sulla terra rossa, e sbatte Adrian da un lato all’altro del campo. Pablo all’inizio del secondo set stringe per l’ennesima volta il dritto, mentre intanto il nerd mastica la mortazza, e Mannarino, ormai stufo, rincorre, svogliato, quel cross, per poi cambiare idea all’ultimo momento.
Qual è il colpo più bello che abbiate mai visto?
Recentemente hanno stuzzicato Adrian Mannarino, chiedendogli un parere sul paragone con il metronomo tennistico per eccellenza, il connazionale Gilles Simon: “Quando ero piccolo non volevo guardare le sue partite, erano un orrore, una tortura…Però sì, in effetti abbiamo delle cose in comune”.
Che non sono 4.850, come direbbe Daniele Silvestri, ma francamente un po’ meno, perché Gillou non è mai riuscito a concepire lo sfizio della fantasia: Mannarino- che oggi spegne 36 candeline- nel corso degli ultimi anni è diventato il monaco calvo del circuito ATP e di conseguenza una specie di personaggio cult. Le spalle strette, che abbracciano una maglietta nuda e sbiadita come lo zaino di prima, ma senza il dettaglio dello sponsor, e che al tempo stesso costruiscono la base di una postura sorniona e infastidita: Adrian non colpisce con la racchetta, Adrian dà i pizzicotti alla pallina, in punta di fioretto, con la tensione delle corde che non supera i 10 Kg. Se quei chili raddoppiassero- raggiungendo la cifra standard di qualsiasi altro collega- probabilmente il dritto di Mannarino, abbandonato dall’effetto fionda, non arriverebbe più alla rete: il francese non gioca a tennis ma fa qualcosa di diverso, perché disegna una ragnatela, grazie alla quale addormenta la partita, per poi nasconderla.
Dipinge il campo con la pazienza del suo talento mancino e con le impugnature più estreme, anestetizza il tennis del rivale di turno, in attesa del momento giusto per il cambio di ritmo: il tempo è un elemento fondamentale del gioco di Mannarino e le aperture- brevissime- dei colpi del francese tendono a bloccarlo, normalizzando il rischio del controbalzo. Il diritto mancino funziona ma solo fino ad un certo punto, perché il movimento è più artigianale che efficace, la conseguenza amara di un problema alla mano sinistra che costrinse- ormai tanti anni fa- il giovane Adrian a cercare il gesto meno doloroso possibile: Mannarino, che nasce come uno dei tanti, è diventato speciale nel momento in cui è invecchiato e in cui ha accettato i propri limiti, sfruttando tutte le imperfezioni di un gioco un po’ difettoso, senza mai cedere alla tentazione di dare la caccia a un tennis che non era il suo. Adrian ha scoperto di essere l’eccezione nel momento in cui i giovani avversari si sono trasformati inesorabilmente nelle copie di mille riassunti, abbandonandosi alla banalità dei robot- tutti uguali- creati in laboratorio. Quali sono i cinque giocatori più divertenti che vi vengono in mente?
Il gusto degli appassionati, che inizialmente lo snobbava, si è lentamente aggrappato a lui, perché non c’erano più alternative, perché la classe del pittino ad un certo punto è stata messa in vendita, sostituita dalla clava del grunting. E allora il francese, che per molti anni ha vissuto all’ombra degli idoli del nerd- vorrei citare il mio preferito, Florian Mayer- ha finalmente trovato il suo spazio, indossando i panni, per lui comodissimi, dell’anti-personaggio un po’ naif, a suon di smorzate- ci torneremo più avanti- e di colpi silenziosi, perché il tennis di Mannarino è un tennis meravigliosamente silenzioso, un po’ ovattato e per certi versi scivoloso, che sembra fatto apposta per l’erba e in generale per i campi più rapidi. E infatti.
La carriera del fioretto mancino è decollata con calma, trovando la quadra definitiva solamente dopo i 30 anni, quando ha spezzato l’incantesimo del titolo ATP: Mannarino aveva perso le prime sei finali nel circuito maggiore (un paio francamente difficili da accettare, con Sugita e Dzumhur, entrambe sull’erba spelacchiata di Antalya), e solamente nel momento in cui si è liberato di quell’ossessione (‘s-Hertogenobosch 2019) ha potuto liberare tutti i tagli del suo tennis. Una volta gli chiesero quale fosse il trucco della sua longevità: “Hai vinto più titoli dopo i 34 anni di quanti ne avessi vinti prima. Qual è il tuo segreto?”
“Ho iniziato a bere tequila”, rispose sorridendo, con le mani appoggiate sui fianchi, nella classica posa da pensionato in riva al mare che valuta la temperatura dell’acqua, rinviando all’infinito il tuffo.
Il francese si è dunque specializzato nei tornei minori (delle 15 finali in carriera- tutte ovviamente su campi rapidi- solamente una è arrivata in un evento 500, a Tokyo) e nelle settimane un po’ interlocutorie del calendario, quelle nascoste, che vengono snobbate dai nomi più famosi: il primo lunedì dopo uno slam, l’ultimo sabato prima di uno slam, oppure, ancora, i tornei dei ragionieri del ranking, ovvero quelli di fine stagione, che si nascondono dietro la nebbia di un fuso orario sgangherato, di un nome autunnale o di un palazzetto angusto. Winston-Salem, Newport, Astana, Sofia: avete mai visto anche solo un quarto d’ora della finale di questi tornei? Mannarino ad esempio sì, le ha viste dall’inizio alla fine, perché le ha vinte, approfittando- con tutto il rispetto, soprattutto per la tradizione di Newport- dei saldi del circuito ATP. Questi trofei di seconda mano hanno contribuito alla leggenda del talento naif che non vinceva mai, senza sponsor, e che non cambia le corde della racchetta anche per due o tre settimane: “La tensione è talmente bassa che non si spezzano”, e pensiamo subito al tic un po’ ridicoli dei top player che buttano via la racchetta ad ogni cambio-palle, ma mai prima di servire.
Mannarino ha improvvisamente intravisto il potenziale della propria maschera, e ha cominciato a divertirsi, smontando i clichè del professionista più meticoloso: “Molti giocatori preferiscono giocare con un mancino prima di affrontare un mancino, allenarsi con un destrorso prima di affrontare un destrorso. Penso solo che sia una sciocchezza. Fatico a trovare partner con cui allenarmi perché le persone sono davvero intense nella loro preparazione. Vogliono che tutto sia perfetto. Per me invece tutto ciò conta sinceramente il giusto. Ad esempio ieri ero troppo stanco e dopo aver fatto un paio di scambi con il mio allenatore- questione di un quarto d’ora- gli ho detto che ero a posto, ho giocato abbastanza a tennis negli ultimi giorni”.
Oppure, ancora, tra il serio e il faceto, ha ammesso di non guardare i tabelloni e soprattutto di non voler mai sapere- a prescindere dal prestigio della partita- il nome del prossimo avversario. Scaramanzia? Presunzione? Sincera indifferenza? Fatto sta che Mannarino lo scopre solamente un’ora prima del match: “Mi serve a concentrarmi su me stesso, perché pensare a una tattica fa sprecare molte energie. La sera prima di un match dormo sempre bene perché non so contro chi giocherò. Prima di scendere in campo faccio una rapida analisi: prima non avrebbe senso sprecare energie”. Nel corso dell’Australian Open del 2024 (quando Adrian ha raggiunto per la quinta volta in carriera gli ottavi di finale di un evento del Grande Slam) lo staff del torneo informò i giornalisti serbi di questa curiosa abitudine di Mannarino, e loro, che volevano stuzzicarlo sul prossimo rivale (Novak Djokovic, proprio negli ottavi di finale) rinunciarono a partecipare alla conferenza stampa, perché evidentemente non erano in grado di produrre domande più stimolanti di “Cosa pensi di fare per battere Djokovic?”, e qui dobbiamo per forza concederci uno sbadiglio.
In quel torneo Mannarino disegnò uno dei capolavori della carriera: tre vittorie, tutte al quinto e decisivo set, compresa quella al terzo turno contro il presunto astro nascente del tennis mondiale, Ben Shelton, all’epoca numero 16 del ranking ATP. Da una parte il modello, la storia perfetta, il fisico esplosivo, il sorriso del protagonista, l’angolo affollato del predestinato e gli assegni degli sponsor più prestigiosi. Dall’altra le gambe gracili, stanche e un po’ pallide del veterano, la maglietta monocolore del supermercato, la faccia di un uomo capitato lì per caso e che non assomigliava per niente a un atleta: per fortuna non esiste il physique du role del vincitore, perché sennò quella partita non sarebbe neanche cominciata. E invece. E invece Mannarino la portò a casa, con la saggezza della tattica ma anche con lo spettacolo del talento, e ad un certo punto scherzò il malcapitato Shelton con una splendida volèe stoppata.
Mannarino grazie a quel risultato ha ritoccato- a quasi 36 anni- il proprio best ranking, assestandosi al numero 17 del mondo, e poi però si è un po’ piantato- perché a quell’età la crisi è dietro l’angolo- perdendo 10 delle successive 12 partite, molte delle quali sull’odiata terra battuta, dove il suo tennis leggero diventa inevitabilmente innocuo. Innocuo e debole, come nel corso di quel lunedì romano del 2017, con Cuevas e la crema solare scaduta, il caldo bollente e il panino croccante con la mortadella: l’uruguaiano stava controllando la partita, perché sul rosso doveva andare così, sbattendo il rivale da un lato all’altro del campo. Pablo all’inizio del secondo set strinse per l’ennesima volta l’angolo del dritto, mentre il nerd stava addentando il suo prezioso panino, e Mannarino, ormai stufo, rincorse, svogliato, quel cross, immaginando una soluzione difensiva, per poi cambiare idea all’ultimo momento: si inventò infatti una smorzata inedita, colpita da una posizione impossibile, che diede un bacio al campo di Cuevas, per poi tornare indietro, dal suo padrone tecnico, guidata dal telecomando del talento. Ed eccoci qui.
La giornata infinita del nerd del tennis- da che mondo è mondo- si conclude di base a tarda sera, quando il nerd è diventato uno zombie, e arriva il momento delle allucinazioni. “C’è Cressy sul campo 12 che sta provando le volèe” ma le luci del campo 12 sono completamente spente, e soprattutto Cressy ha perso prima ancora che cominciasse il torneo. Lo zombie appiccicoso incrocia la sfilata degli snob profumati che stanno arrivando per il Gran Galà della sessione serale: il confronto è impietoso- esattamente come quello tra Mannarino e Shelton- e la domanda sorge spontanea: ma loro lo avranno mai visto, un turno di servizio di Dustin Brown?
Le palpebre bruciano, a causa del sonno, e anche la scottatura sul collo non scherza, perché sì, le creme solari alla fine hanno una data di scadenza. E le televisioni straniere invece no, non conoscono Supertennis. Il ponentino finalmente regala un po’ di fresco, lo zaino è leggero, e tra poco, all’Autogrill, festeggeremo con l’ultima birra, perché anche stavolta ne è valsa la pena.
Qual è il colpo più bello che abbiate mai visto? Io una volta ad esempio mi sono goduto una smorzata con la retromarcia di Adrian Mannarino, e l’ho fotografata con gli occhi.