TRIESTE Maliki, afghano di 26 anni, si sveglia con il rumore delle turbine di Italspurghi, in piazza Libertà per rimuovere incarti di merendine, lattine e indumenti abbandonati nella notte.
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«Monday», cioè lunedì, domani mattina, spiega, si metterà in fila fuori dalla questura per fare richiesta di asilo e cercare di entrare nel circuito di accoglienza. «Mi aiuteranno con i documents», confida il migrante, che parla pochissimo l’inglese e per comunicare chiede aiuto a uno dei ragazzi che come lui hanno dormito avvolti da un telo termico, i più fortunati, o direttamente all’addiaccio davanti alla stazione dei treni. Anche ieri notte, anche dopo lo sgombero del Silos.
«Eravamo più di quaranta stanotte», racconta Nuuman, afghano di 18 anni, che venerdì all’alba si era allontanato da via Gioia perché «non volevo essere trasferito: io voglio partire, andare in Europa».
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I migranti continuano ad arrivare. Maliki lo ha fatto venerdì notte tardi, quando il Silos era stato già svuotato, sigillato, messo sotto sorveglianza privata e anche i volontari di Linea d’Ombra avevano ormai terminato la distribuzione serale di vivande e medicinali. «Mi manderanno in un camp, un centro di accoglienza», spera il profugo.
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Presto per dire se questo «camp» sarà l’ex Ostello scout di Campo Sacro, come era stato annunciato dalle autorità nei giorni scorsi, oppure una struttura da qualche parte nel Nord Italia, dove forse incontrerà i 165 ragazzi trasferiti l’altro ieri dalle forze dell’ordine. Certo Maliki non può sapere che se il suo viaggio di fuga dai «taliban» fosse durato anche solo pochi giorni di meno, allora la sua sorte sarebbe stata quella di accamparsi in un magazzino diroccato popolato da ratti ed escrementi.
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Ma il cammino è stato lungo («mi hanno respinto alla frontiera due volte», racconta il ragazzo) e così al suo arrivo Maliki non ha trovato che ingressi chiusi da teli verdi, inferriate, guardie giurate a sorvegliare il vecchio immobile. Nello zaino aveva almeno un telo termico, e piazza Libertà era silenziosa: tutti gli altri migranti, al suo arrivo, si erano già coricati.
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Il risveglio è invece rumoroso, perché la piazza inizia a essere bonificata dalle turbine ancora prima delle otto, per tutta l’operazione sorvegliata da due agenti, mentre i profughi dormono accoccolati sulle panchine oppure nascosti tra i cespugli davanti alla statua di Sissi. «Avevo paura, no police», dice Qhatah, iracheno di 43 anni, arrivato in città da una settimana. Fino a venerdì era accampato sotto le arcate del Silos, da ieri è ospite dei marciapiedi davanti alla stazione ferroviaria.
Qhatah, spiega, non sapeva dell’operazione di sgombero, e neanche che chi come lui disponeva di documenti sarebbe stato trasferito. Amici con cui parlare evidentemente non ne aveva. «Mi ero allontanato la notte prima, poi la mattina ho visto tutte le pattuglie e ho avuto timore», racconta indicando sul braccio una cicatrice, ricordo dell’incidente a bordo dell’auto del passeur che l’ha accompagnato attraverso l’ultimo tratto della Rotta balcanica.
«Il Khandwala è chiuso», bisbiglia Noman Ashraf, afghano di 40 anni. «Il Khandwala», così viene (veniva) chiamato il Silos dai migranti che come lui vi hanno invece dimorato per settimane. Anche lui l’altro ieri aveva atteso in fila indiana dietro al magazzino per essere identificato dalle forze dell’ordine, almeno così racconta. Ma non si può entrare nel circuito di accoglienza se non si dispone di documenti, né si intende far richiesta di asilo. «Ripartirò e andrò in Germania», dice Noman Ashraf, mostrando sul telefonino la foto di tre bambini piccoli. I suoi figli. «Loro mi raggiungeranno».