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Vino, il futuro è donna



Il cambio generazionale (e di genere) sta facendo bene alle produzioni. Linfa nuova per i marchi tradizionali, nascita di cantine e manifestazioni, approccio scientifico con abilità economica. Ecco la mappa «al femminile» dell’eccellenza italiana.

Il futuro del vino è in rosa. E non solo per i «rosati» che mettono a segno ottimi risultati (soprattutto le bollicine, il segmento cresce nei primi quattro mesi di quest’anno del 6,1 per cento con 37,8 milioni di fatturato, con una tendenza che spinge dive come Kylie Minogue a farsi produrre un Prosecco doc Zonin in una bottiglia tempestata di cuoricini per venderla come una sorta di «vino Barbie»). C’è molto di più, infatti: nelle dinastie delle nostrane cantine emergono le eredi al femminile. Una prerogativa toscana e viene da pensare che a questa caratteristica non sia estraneo un certo Dna etrusco. Ecco che, nel Sarcofago degli Sposi al museo di Villa Giulia a Roma, o nei buccheri volterrani al museo Guarnacci o, ancora, nella tomba del banchetto a Tarquinia dove le donne tenevano la coppa con gli uomini, c’è una chiara indicazione di questa felice emancipazione...

Aneddoti e citazioni a parte, oggi le discendenti di quelle donne dell’Etruria - come di molte altre parti del Paese - fanno bere vini eccelsi a tutto il mondo. È il caso di Albiera Antinori, la ventottesima generazione dei marchesi toscani dedita alla produzione enoica in quel paradiso che è il Chianti: ha assunto la presidenza di un gruppo vinicolo (con fatturato da 245 milioni di euro) che sfida i francesi ed è un marchio assoluto. «Babbo Piero mi ha affidato questa responsabilità rompendo antichi schemi» riconosce lei. «Certo, per me che sono femmina è stato più facile seguire gli insegnamenti di un uomo che ha cambiato la percezione del prodotto italiano d’eccellenza a livello globale». Questa «confessione» è stata fatta il giorno in cui si è celebrato il mezzo secolo del Tignanello: il vino che ha segnato la rinascita dell’Italia in cantina. Era infatti il 1971 quando Piero Antinori intuì con Émile Peynedaud (allora il re degli enologi) che si poteva fare un altro Chianti (il Consorzio del Gallo nero ha festeggiato il secolo di vita: è il più antico del Paese). Già Giacomo Tachis - direttore allora della Antinori - a Bolgheri aveva prodotto il Sassicaia che aveva sfidato e battuto i Bordeaux a casa loro, e si sapeva che unendo il Sangiovese - il sangue di Toscana - con i Cabernet si poteva puntare alla massima qualità. Così fu per il Tignanello, che venne commercializzato nel 1974, e poi per il Solaia che - usando bene le barriques e comprendendo grazie agli studi del duo Peyneuad-Tachis che la fermentazione malolattica era indispensabile per arrotondare i tannini e rendere morbido e duraturo il vino - aprirono la grande stagione dei cosiddetti Supertuscans. Albiera oggi la interpreta con le due sorelle Allegra e Alessia.

Più in generale, esiste uno «specifico femminile» del fare vino? Rimanendo dalle parti del Sassicaia la domanda va posta all’enologa Graziana Grassini. È lei che ha raccolto l’eredità di Giacomo Tachis in cantina a Bolgheri - siamo sempre in terre etrusche - dal marchese Niccolò Incisa della Rocchetta. È diverso il suo Sassicaia che resta il più celebrato dei vini italiani nel mondo? Impercettibilmente sì: possiede maggiore ampiezza di bouquet. Mentre Tachis badava allo spessore gustativo, Grazzini firma una scelta olfattiva. C’è una ragione profonda. La spiegano tanto la neuoroscienza quanto la paleo-antropologia, giusto per sottolineare che occuparsi di vino è cosa assai più ampia del baloccarsi tra cotillons e immaginifici quanto improbabili sentori di cinghiale bagnato da scovare in fondo al bicchiere. Spiega il professor Andrea Stracciari, tra i neurologi che più si sono applicati allo studio dei sensi: «La donna ha un numero più elevato di papille gustative: in media il 43 per cento in più. Rispetto al maschio, è anche più sensibile al disgusto; non è chiaro se si tratti di una caratteristica innata o di un condizionamento culturale».

Noah Sobel, bio-antropoologo israeliano, ha evidenziato che lo sviluppo dell’olfatto nelle donne deriva dalla necessità di proteggere la prole (e loro stesse) e la prova sta nel fatto che durante le fasi pre-mestruali questa facoltà si accentua, quasi fosse correlata alla fertilità. Nonostante questa dote, non è facile per loro farsi spazio in un mondo «al maschile» come quello degli enologi. Eppure Francesca Moretti, una delle figlie di Vittorio, il patron di Bellavista, cantina glamour della Franciacorta, non solo è a capo del gruppo vinicolo Terra Moretti (oltre a Bellavista e Contadi-Castaldi in Franciacorta, Sella & Mosca in Sardegna, l‘Acquabona, Teruzzi e Petra in Toscana), ma è la prima enologa del gruppo cresciuta accanto a Mattia Vezzola, il mago delle bollicine. Il suo debutto avvenne a Petra, la cantina-gioiello che la famiglia ha fondato a Suvereto, in piena Maremma, oggi è la maître de cave della famiglia. «L’ultimo prodotto? Lo degusteremo il prossimo settembre» spiega Moretti. «È una versione più affascinante di Opera, la nostra bollicina di punta. Ci ho messo dentro molto di me». Lei è innamorata dei fiori di campo, aspettarsi un Franciacorta assai profumato è il minimo.

Sempre dalla Maremma vengono alcune pioniere del vino come Fiorella Lenzi (Serraiola), come Franca Spinola (La Parrina), come Rita Tua o come Cinzia Merli, che a Bolgheri ha avuto la forza e il coraggio di continuare l’avventura del marito Eugenio Campolmi, scomparso troppo giovane, e grandissimo esaltatore del Cabernet Franc. Una storia analoga è quella di Marina Cvetic che dall’altra parte d’Italia, sulle sponde dell’Adriatico, ha raccolto l’eredità di un «anarchico del vino» come Gianni Masciarelli e ha fatto grande il Montepulciano d’Abruzzo. Lei al castello di Semivicoli ha dato ulteriore impulso a quest’isola di qualità assoluta. La differenza dei loro vini rispetto a quella dei «pionieri»? Maggiore rotondità quasi a smentire Friedrich Nietzsche che ne La nascita della tragedia, rifacendosi ai riti delle baccanti, stabilisce un’antitesi tra lo spirito dionisiaco impulsivo e in fondo pessimista e lo spirito apollineo dominato dalla razionalità. Questi nettari sono invece la sintesi tra Dioniso e Apollo, dominati dall’armonia. Cercano invece una sorta di «proseguimento» le continuatrici di grandi vini del Piemonte, come Raffaella Bologna, figlia di Giacomo il profeta della Barbera, o Maria Teresa Mascarello, la vestale del Barolo. Quest’ultimo, peraltro, non sarebbe mai nato né diventato grande senza una donna: Juliette Colbert che, sposa del marchese di Barolo Falletti, finanziò le ricerche per portare quel Nebbiolo rosato e amabile tra i più celebrati vini italiani.

Proprio dal Piemonte, nelle settimane scorse, è partita una meritevolissima iniziativa, ovvero Castelli aperti: 75 produttrici che hanno meno di 40 anni d’età e che, in collaborazione con l’Ais (Associazione sommelier), animano i manieri di Langa. È una forma nuova di «enoturismo» che è diventato anch’esso uno dei più forti motivi attrattori d’Italia. Merito di una vignaiola anche lei toscana, Donatella Cinelli Colombini, che nel 1992 - in collaborazione con la professoressa bocconiana Magda Antonioli - fondò il Movimento turismo del vino. La prima edizione di cantine aperte coinvolse 52 aziende. Oggi, in una progressione virtuosa, sono più di mille. Tra Montalcino e Trequanda, nel territorio straordinario tra Val d’Orcia e Crete senesi, Donatella ha le sue vigne tutte al femminile, dall’enologa all’agronoma. Si chiama Casato prime donne e adesso a guidarlo c’è la figlia: Violante (Gardini). Lei sa di economia ed è, ad appena 27 anni, anche un’ottima esperta del vino. Le dinastie al femminile percorrono poi l’intero «vigneto Italia»: da Elda Felluga a Ornella e Serena Venica in Friuli, da Elena Walch, la signora del Pinot bianco dell’Alto Adige, fino a Roberta Giuriali Seltzer che con suo marito Antonio a Maso Martis l’atelier del Trentodoc ha fatto posto alle due figlie Alessandra e Maddalena.

La storia si ripete in Sicilia dove una donna va ritenuta il motore del vino siciliano: José Rallo. È lei l’artefice di quell’esperienza unica che si chiama Donnafugata: vigne nei territori più vocati dell’isola. Compresa Pantelleria dove sgorga il Ben Rye, il vino simbolo dei nostri grandi «moscati passito», e dove un’attrice di valore come Carole Bouquet l’ha imitata. Ha deciso di piantare vigna e fare il suo passito: Sangue d’Oro venduto a peso aureo: mezzo litro 95 euro! In ogni caso, il vino di José Rallo è anche un’esperienza culturale, è coltivazione della radice etnica, da qui deriva la collaborazione con Domenico Dolce e Stefano Gabbana in nome della sicilianità. È lo stesso spirito che anima le donne del vino della Sardegna di cui alta rappresentante è Laura Carmina che a Luras con la sua Tenuta Muscazega ha riunito attorno a sé soltanto ragazze: dall’enologa alla responsabile commerciale. Il vino al femminile oggi si fa identità del Sud e azione di riscatto con le vignaiole calabresi che hanno fatto debuttare al Vinitaly di quest’anno il loro Korale. È il frutto di 45 coltivatrici che, riunite da Vincenza Alessio Librandi, finanziano con questa bottiglia il centro anti-violenza Roberta Lanzino di Cosenza. Ormai è passato remoto il tempo in cui le ragazze in cantina al massimo si occupavano di pubbliche relazioni, in cui le sommelier erano una sparuta minoranza. Le donne hanno imparato a fare il vino, come a berlo: sono le nuove consumatrici (più 12 per cento mentre i maschi calano del due per cento su una quota di 29,4 milioni di consumatori). La saggezza etrusca, per fortuna, è tra noi.

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