Prima dell’arrivo di Rafal Nadal con la sua potenza di fuoco, il Roland Garros è stato travolto dal freddo gelido del nord. Bjorn Borg, giocatore di incredibile precocità, ha segnato un’epoca non solo per essersi imposto nel circuito grazie a un talento peculiare, ma anche per aver rivoluzionato il modo di stare dentro e fuori dal campo e la maniera con cui trattare la palla.
Nel 1974 Borg si presentava a Parigi non da perfetto sconosciuto, si era già fatto notare un anno prima ottenendo il trofeo a Monte-Carlo e raggiungendo gli ottavi di finale sempre al Roland Garros. L’anno seguente aveva riportato cinque titoli tra cui Roma appena tre giorni prima l’inizio degli Internazionali di Francia dove era testa di serie numero 3 (nella classifica ATP, capeggiata da John Newcombe, occupava invece la posizione numero 8). Questo è il periodo in cui i tennisti diventano delle rock-stars, avvistati nei più rinomati locali del mondo come il Club 54 di New York; con il loro bell’aspetto e un forte carisma iniziano a frequentare i salotti delle tv e a essere osannati dai fans come delle proprie e vere vedette dello spettacolo. I più stravaganti conducono una vita al limite, tra feste e fiumi di champagne, anche alla vigilia di un grande match. Lo stesso non vale per Borg che al contrario resta chiuso nella sua camera d’hotel con il coach Lennart Bergelin, estremamente concentrato e focalizzato sul suo percorso, non pensa ad altro che al tennis. Lo svedese è stato il primo ad introdurre un approccio scientifico e rigoroso all’allenamento e alla preparazione prima di una partita, anticipando molte delle pratiche che diventeranno poi standard per il tennis professionistico.
Come Jimmy Connors, Borg utilizza il rovescio a due mani, sicuramente inusuale a metà degli anni ’70. Non è solo questa però la novità tecnica, quello che lo caratterizza è il lift che imprime alla palla (portato poi al suo parossismo dal genio nadaliano). Lo scandinavo sarà infatti l’ispiratore della scuola svedese degli anni ottanta e poi di quella spagnola negli anni novanta.
«Ciò che mi aveva colpito è che quel ragazzo ingrandiva le dimensioni del campo», spiega Jean-Paul Loth, allora allenatore della squadra francese. «Quando gli altri giocavano incrociato, potevi ancora attaccare la palla nel mezzo del corridoio. Con lui, a causa del topspin, eri costretto a giocare la palla stando spostato di due metri all’esterno del corridoio. E faceva la stessa cosa in lunghezza. Visto il rimbalzo, nessuno sapeva bene come attaccare le sue palle. Abbiamo visto cosa è successo, anni dopo, con Nadal. La sua palla ti schizza in faccia, sei costretto ad arretrare. L’unico che ha capito qualcosa della situazione è stato McEnroe. Ma, prima di lui, tutti ci si sono schiantati contro. Tranne Panatta, splendido contro di lui a Roland Garros, nel 1973 (ottavi di finale) e nel 1976 (quarti di finale).»
Borg in mano tiene la famosa racchetta in legno Donnay modello nero e rosso dal piccolo piatto corde, tesa a più di 30 kg, uno strumento estremamente difficile da controllare in grado però di inviare all’avversario veri e propri proiettili di dritto.
«La palla di Connors non pesava. Con Borg, invece, c’erano sia il peso che l’effetto topspin. E trovava angoli stretti. Quindi, i rovesci a una mano (ampiamente maggioritari all’epoca) soffrivano enormemente contro di lui. Poiché non aveva una presa chiusa come quelle di oggi e colpiva forte, la sua palla avanzava rapidamente. E il rimbalzo ti trascinava verso l’indietro. Avresti dovuto giocare tutto in demi-volée, ma sarebbe stato suicida. L’unico che ci è veramente riuscito è stato McEnroe. Ma stiamo parlando di un talento fuori dal comune.» ha dichiarato al giornale l’Équipe Jean-François Caujolle, a cui capitò di affrontare lo svedese tre volte, prima di diventare qualche anno dopo il direttore del torneo 250 di Marsiglia.
È già passato mezzo secolo da quella prima finale parigina, in cui Borg sorprese un giocatore esperto come lo spagnolo Manuel Orantes. Persi i primi due set, spazzò poi l’avversario con un categorico 6-0,6-1,6-1 concedendogli appena due giochi. Quello è stato l’inizio di un dominio quasi senza appello e l’insinuarsi di un enigma indecifrabile nelle menti dei campioni di allora. Precisamente fino al 1984, anno in cui Borg deciderà di ritirarsi a soli 26 anni, logorato mentalmente dalla fatica e da una vita nel circuito professionale estenuante, lasciando tutto il pubblico nell’incomprensione totale. Prima di arrivare a questo momento, realizza per tre volte la doppietta Roland Garros-Wimbledon e si impone per ben quattro volte consecutivamente tra il 1978 e il 1981. Anno quest’ultimo dell’iconica finale Borg-Lendl, simile a un passaggio di testimone benché il cecoslovacco fosse solo di quattro anni più giovane (Ivan Lendl perse al quinto set con il punteggio di 6-1,4-6,6-2,3-6,6-1). Nel 1981 Borg è all’apice della sua carriera tanto da apparire addirittura nella locandina del torneo (la seconda realizzata da un artista) con un disegno di Arroyo che lo mostra di spalle, con la sua capigliatura emblematica tenuta da una fascetta tricolore.
Porte d’Auteuil è l’ingresso del tempio di Borg, nelle edizioni 1978 e 1980 vince il torneo senza concedere nemmeno un set, è sua anche la miglior percentuale di vittorie con il 96,1% (49 vittorie e 2 sconfitte, superato solo da Nadal con il 97,4%), all’immagine dello spagnolo anche Borg non è mai stato sconfitto in finale a Parigi. Per sua stessa ammissione, nel documentario Netflix dedicato a Guillermo Vilas, l’argentino e lui erano «i due miglior giocatori al mondo su terra battuta», benché l’intramontabile uomo di ghiaccio si difendeva molto bene anche sull’erba londinese.
La leggenda Borg rimarrà scalfita nella storia per i decenni a venire, non solo per essere stato un giocatore all’avanguardia e di primissimo piano, ma anche per aver manifestato al mondo una personalità unica e inimitabile.
Jenny Rosmini