Giovedì 7 giugno 1984. In tarda mattinata Enrico Berlinguer arriva in auto a Padova da Genova, impegnato in una serie di comizi per le elezioni europee, in agenda domenica 17.
Prende alloggio in una stanza al quarto piano dell’hotel Plaza, in corso Milano; consuma un rapido pranzo, poi sale in camera per preparare il testo del discorso che dovrà tenere alla sera. Stende le risposte scritte a un’intervista con Lamberto Sechi, direttore del Mattino di Padova.
Alle cinque del pomeriggio incontra una delegazione degli operai della Magrini-Galileo di Battaglia, da mesi in amministrazione controllata, e in trattativa per l’acquisto da parte di un gruppo francese.
Poco prima delle nove di sera arriva in piazza della Frutta, dove è stato allestito il palco sul lato destro guardando il palazzo della Ragione; è sull’Alfetta blindata che usa per gli spostamenti, guidata dall’autista di fiducia, Alberto Menichelli; a fianco di quest’ultimo c’è Roberto Bertuzzi, responsabile dei servizi di sicurezza del Pci e addetto alla scorta di Berlinguer.
Il segretario è sui sedili posteriori, a fianco di Flavio Zanonato (che nel 1993 diventerà sindaco), all’epoca segretario della federazione padovana del partito. È quest’ultimo a introdurre il comizio, seguito dall’intervento di Lalla Trupia, vicentina, candidata, che risulterà eletta.
Tocca a Berlinguer. Indossa una giacca a quadri sopra camicia bianca e cravatta; davanti a lui ha una piazza strapiena, che lo interrompe ripetutamente con applausi. Ma quando arriva verso il termine del suo intervento, poco dopo le dieci, proprio mentre invita la folla “a impegnarci tutti”, avverte i primi sintomi del malore che gli sarà fatale.
Toglie e mette ripetutamente gli occhiali, beve a più riprese un sorso d’acqua, la voce comincia a rompersi, ha ripetuti colpi di tosse, porta in continuazione il fazzoletto alla bocca; si gira un paio di volte con conati di vomito.
Dalla piazza salgono sul palco il già citato Bertuzzi e Tonino Tatò, suo capo ufficio stampa, che gli gettano addosso un impermeabile e lo invitano a smettere. Anche la piazza se n’è accorta, e lancia il grido “basta – basta! ”.
Ma Berlinguer va avanti fino in fondo. Parla ancora per un minuto scarso, e riesce a lanciare l’appello finale, sia pure con voce sempre più strascicata: «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo; è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà».
Giuliano Lenci, primario pneumologo e militante Pci di vecchia data, gli chiede, «cosa ti senti?»; e lui risponde «nausea e freddo». Sono quasi le dieci e mezzo. Si accascia, viene portato a braccia giù dal palco, e caricato sull’Alfetta; un paio di minuti dopo è al “Plaza”, lo portano in camera e lo fanno sdraiare. Ma le sue condizioni sono palesemente gravi: viene fatta arrivare un’ambulanza, che lo trasporta al Policlinico.
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Gli fanno una tac e un’angiografia, si riscontra che è in atto un’emorragia grave. Si decide di operarlo d’urgenza: l’intervento inizia alle undici e quaranta, e viene effettuato dal primario di Neurochirurgia, Salvatore Mingrino, affiancato dal primario di Anestesia Giampiero Giron.
Il giorno seguente arrivano, in treno da Roma, la moglie Letizia, i figli Bianca, Maria Stella, Marco e Laura, e il fratello Giovanni.
Alle 11 si presenta in reparto il capo dello Stato, Sandro Pertini, che fermo a fianco del suo capezzale mormora commosso: “Non è giusto che sia successo”. Nei giorni successivi si presenta tutto il mondo politico, da Craxi a Spadolini, da Rumor a Cossiga, da Forlani a Pajetta (che poi terrà l’orazione funebre). Ma le terapie si rivelano inutili, e nella notte del 10 le condizioni di Berlinguer precipitano: martedì 11, alle nove e un quarto, l’ottavo bollettino medico spiega che «durante la notte le condizioni cliniche dell’onorevole Enrico Berlinguer si sono ulteriormente aggravate; l’attività elettrica cerebrale è scomparsa. Il coma, pertanto, è da considerarsi irreversibile».
Tre ore e mezzo dopo, l’annuncio finale: a mezzogiorno e tre quarti, la morte.
Pertini torna in ospedale, e annuncia che riporterà Berlinguer a Roma con l’aereo presidenziale: «Lo porto con me come un figlio, un amico fraterno, un compagno di lotta».
Il 13 una folla sterminata dà l’ultimo saluto al segretario del Pci; pochi giorni dopo, nelle urne delle europee, il partito effettua uno storico sorpasso sulla Dc per poco più di 130mila voti.
Dal Psi, uscito sconfitto, Craxi e Martelli accusano Pertini di aver agevolato il successo comunista con il comportamento adottato in quei giorni. Lui replica, alla Pertini: «Voi due fate una cosa. Andate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta, e io vi porto in aereo a Roma; vediamo se il Psi prende voti».
