IVREA. Un festival che parla di futuro e di strategie. Enrico Giovannini, economista, statistico, accademico, già ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili del Governo Draghi e ministro del Lavoro e delle politiche sociali del Governo Letta, è co-fondatore e direttore scientifico dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), una rete di oltre 330 soggetti della società civile creata per attuare in Italia l’Agenda 2030 dell’Onu. Sarà a Ivrea il 7 maggio, per l’evento inaugurale del Festival dello sviluppo sostenibile, per la prima volta in città.
Giovannini interverrà alle 10,40, e presenterà il Rapporto di primavera dell’ASviS. Ha accettato di rispondere a qualche domanda della Sentinella per spiegare i contenuti del Festival.
Professore, qual è l’obiettivo del Festival?
«La campagna del Festival invita a pensare il mondo che vorremmo, ma poi ad aprire gli occhi sul mondo che abbiamo e pensare a come cambiarlo. Presenteremo il nuovo Rapporto di primavera dell’ASviS con una serie di analisi innovative e molto interessanti. Sarà l’occasione per discutere dove vogliamo andare, a partire dal mondo imprenditoriale. Le imprese sono chiamate oggi da che parte stare rispetto alla rivoluzione digitale ed ecologica e quindi a comprendere dove andrà il futuro. Servono lungimiranza e coraggio».
Perché una partenza del Festival da Ivrea?
«Ivrea è una città simbolo, grazie alla Olivetti. E Olivetti è anche l’esempio di come a un certo punto le decisioni aziendali siano andate nella direzione sbagliata. Semplificando: tenere le macchine da scrivere e dare via i computer. Ecco, crediamo che le imprese oggi si trovino di fronte a dilemmi di questo tipo: investire nella sostenibilità o resistere al cambiamento? Il Festival parte da Ivrea e poi sarà a Torino, per quest’anno capitale italiana della cultura di impresa, per sottolineare che senza trasformazione dei modelli imprenditoriali non si va molto lontano».
Cosa intendiamo con sviluppo sostenibile?
«È uno sviluppo che consente alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare il fatto che le generazioni future possano fare altrettanto. Dal 2015, cioè dalla firma dell'Agenda 2030 dell’Onu, il mondo si è impegnato ad andare in questa direzione per evitare un disastro ambientale, economico e sociale. Va poi detto che il pianeta sopravviverà ai disastri che stiamo determinando, ma il problema siamo noi, cioè la società umana. Nelle simulazioni che presenteremo il 7 maggio si vede che, in assenza di un profondo cambiamento, esiste il rischio che nel 2100 il Pil mondiale vada a zero perché l'aumento delle temperature distrugge la società e l'economia che conosciamo. D'altra parte, gli attuali conflitti internazionali mostrano come, a livello globale, sia difficile praticare un approccio cooperativo. Ogni Paese dovrebbe fare la propria parte per divenire sostenibile, anche sul piano sociale, riducendo drasticamente le disuguaglianze che vediamo intorno a noi. Inoltre, individui, risparmiatori, cittadini, società civile, imprese e politica devono remare tutti nella stessa direzione, altrimenti lo sviluppo sostenibile non si realizza».
Quale il ruolo dell’Europa?
«L’Europa è il luogo del mondo più sostenibile e negli ultimi cinque anni l’Unione europea ha messo in campo uno straordinario impegno sulla sostenibilità. Il Green deal si prefigge di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, ma non è una strategia solo ambientalista, piuttosto intende stimolare l'innovazione e aumentare reddito e occupazione, rispettando l'ambiente. Ci sono state direttive importanti, come quelle sul salario minimo, contro il greenwashing a favore dell'uguaglianza di genere. L’impegno dell’Unione europea sta producendo importanti risultati anche a livello globale: la logica che ha guidato il Green deal europeo è stata successivamente copiata dagli Stati Uniti e da altri Paesi».
Le imprese hanno un ruolo strategico in questo processo?
«Da dati Istat e Unioncamere emerge che le imprese che in Italia già hanno adottato queste strategie di sostenibilità vedono vantaggi straordinari. Come sempre, nel sistema produttivo italiano c’è un nucleo di imprese fortemente innovativo che ottiene ottimi risultati e altre imprese che arrancano perché non innovano, senza citare quelle che fanno concorrenza sleale con evasione e lavoro nero. Siamo all’inizio di un profondo cambiamento e chi non lo capisce resterà indietro. Questa trasformazione, ovviamente, può accadere solo se la politica accompagna adeguatamente questa trasformazione, invece che frenarla».
Com’è il Paese Italia, rispetto a questi obiettivi?
«In forte ritardo. Bisogna agire subito: prima partiamo, prima avremo risultati positivi. Non c’è tempo, dopo la pandemia c'è stata una grande accelerazione e ci sono Paesi che si stanno muovendo molto rapidamente verso la transizione ecologica, noi no».
Cosa è necessario?
«Avere lungimiranza, capacità di scegliere, spingere tutti nella stessa direzione, mobilitando settore privato e settore pubblico. Questo può cambiare la cultura anche individuale e dunque possiamo essere tutti agenti del cambiamento, o del rallentamento. Più fondi a ricerca, sviluppo, formazione avanzata e di base potrebbero fare la differenza. Servono infrastrutture energetiche rinnovabili: "più rinnovabili" dovrebbe essere un mantra per tutti».
E cos’altro?
«Non sprecare soldi in cose che non costruiscono un motore più forte per l’economia. Ad esempio, bisognerebbe smantellare i 30 miliardi annuali di sussidi dannosi all’ambiente e trasformali in sussidi favorevoli all’ambiente, si dovrebbero stringere forti alleanze europee nel settore industriale e capire che l’unica nostra speranza in un mondo turbolento è quella di essere più "grandi", grazie all'Unione europea. Dobbiamo quindi rafforzare le istituzioni europee e non indebolirle». R.C.