«Le prove raccolte consentono di affermare che ogni operatore socio sanitario ha agito individualmente, dando sfogo alla propria frustrazione e alla propria aggressività, manifestando insensibilità e disprezzo e in taluni casi crudeltà, nei confronti dei poveri anziani», ma senza accordi tra loro: «Si tratta di soggetti insensibili, in taluni casi maneschi e assolutamente inadatti a svolgere una funzione così delicata come quella dell’operatore socio sanitario che ha il compito di accudire le persone fragili con rispetto e delicatezza, nell’ultima fase della loro esistenza».
Nelle motivazioni della sentenza con la quale ha condannato quattro operatori socio sanitari per maltrattamenti e un quindo per ripetute violenze sessuali, la giudice per le udienze preliminari Benedetta Vitolo conferma che - per qualche tempo - il Reparto Viola della casa di riposo “Caduti di tutte le guerre” di San Donà è stata davvero per qualche tempo, sotto la vecchia (distratta) gestione, una “Rsa degli orrori”, con violenze fisiche a numerosi anziani ospiti (pugni e sberle), angherie (pannoloni lanciati contro, cibo gettato via), insulti di ogni tipo e persino (nel caso di un imputato) orribili e ripetuti abusi sessuali, tanto che sono arrivate le condanne per i 5 operatori coinvolti.
Ma per la giudice, da una parte non c’è prova che ci fosse accordo tra loro; dall’altra non ci sarebbe la certezza che quelle botte ricevute e provate, le 17 fratture alle costole sul corpo dell’anziana Lucia S., le strattonate per i capelli, i colpi in faccia, le minacce siano state la causa della sua morte.
Di questo si è convinta la giudice per le udienze preliminari Benedetta Vitolo, che ha sì condannato i 5 imputati, ma li ha assolti dall’aggravante del “concorso” tra loro e, in particolare, dall’accusa mossa dalla Procura di “morte in conseguenza di altro reato” - i maltrattamenti - per il decesso della signora Lucia a 85 anni, che l’accusa aveva messo in relazione ai maltrattamenti subiti dalla donna.
Due valutazioni che hanno, ovviamente, abbassato di molto le pene - già ridotte di un terzo per la natura del rito abbreviato - e che il pubblico ministero Andrea Petroni si prepara ad impugnare in appello.
Nei giorni scorsi, infatti la giudice ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale ha condannato a 8 anni di reclusione Davide Barresi, l’unico accusato di ripetute violenze sessuali, riprese dalle microcamere installate dai carabinieri durante e indagini: «Agiva sempre da solo, guardandosi attorno con circospezione, cercando di nascondersi per trovare il momento adatto per dare sfogo alle sue perversioni sessuali». Sette le anziane vittime delle sue violenze.
Sei anni la pena per Fabio Danieli, considerato il più violento, sempre pronto a tirare una sberla a un anziano lento nel mangiare, un insulto, uno strattone; 5 anni per la collega e compagna Maria Grazia Badalamenti; 2 anni e 4 mesi per le oss Margie Rosiglioni e Anna Pollazzon accusate di episodi specifici. Ma per quanto riguarda la morte della signora Lucia S., più volte ricoverata per fratture e ferite, maltrattata, ingiuriata, la giudice non ha ritenuto provato » che le angherie violente siano state la causa del suo decesso, avvenuto 19 giorni dopo l’ultimo episodio. A fronte di perizie medico legali dall’esito opposto - del consulente della Procura e di quelli delle difese - la gup aveva incaricato di una perizia terza un proprio medico legale, che aveva pure concluso per il nesso tra maltrattamenti, fratture costali e decesso: «È possibile ricostruire un nesso concausale fra lo stato di estrema fragilità della donna, le lesioni costali e lo scompenso terminale con edema polmonare relativo al decesso», hanno scritto il geriatra Paolo Fusato e il medico legale Claudio Rago.
Ma per la gup Vitolo non si sarebbe raggiunta la prova del collegamento botte-morte «al di là di ogni ragionevole dubbio», con certezza assoluta. Scrive la giudice: «Le preesistenti e gravi patologie, il lasso temporale fra fratture e morte, le tipologie di fratture a destra, l’intera datazione delle altre fratture, la normalizzazione del respiro dopo il ritorno in struttura, la somministrazione di morfina, l’omessa somministrazione di ossigeno e del versamento cronico, non consentono di ritenere provato al di là di ogni ragionevole dubbio il nesso tra le condotte maltrattanti poste in essere dagli oss e la morte della signora».
Quel che è certo è che gli ultimi mesi di vita della donna sono stati un inferno e la Procura valuta ricorso.
