Chiamare un uomo signora, dottoressa, professoressa. Oppure avvocata, architetta, senatrice, ministra. No, non si tratta di una burla, ma della nuova frontiera del politicamente corretto, anzi del linguisticamente corretto. Ha suscitato curiosità, nelle scorse settimane, la scelta del Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento di approvare un regolamento che prevede il cosiddetto “femminile sovraesteso”, ossia la declinazione di tutte le cariche al femminile, sia per le donne sia per gli uomini.
La reazione di una schiera di docenti universitari di varia formazione ed estrazione culturale non si è fatta attendere. Su iniziativa del prof. Massimo Arcangeli, linguista e sociologo, collaboratore dell’Istituto Treccani e della Società Dante Alighieri, è stata lanciata su Change.org una petizione. Essa propone “al Governo e ai Ministeri più direttamente interessati (il Ministero dell’Università e della Ricerca, il Ministero dell’Istruzione e del Merito, il Ministero della Pubblica Amministrazione)” di esprimere un parere sull’iniziativa del Consiglio d’amministrazione dell’Università di Trento, nonché di chiedere al rettore e ai competenti organi dell’ateneo “di rimettere mano al Regolamento appena varato relativamente alle soluzioni ‘inclusive’ adottate”. Del resto, tali soluzioni – prosegue la missiva dei docenti – “sono contrarie al buonsenso e avverse al senso comune linguistico e alla declinazione pubblica e istituzionale dell’italiano”. La lingua italiana – fanno presente infine – “deve rispondere alle esigenze di tutta la comunità nazionale e porsi perciò al suo servizio”. Il nostro idioma, insomma, ha una funzione sociale e identitaria, non è il terreno di sperimentazione di vezzi ideologici da parte di minoranze.
Massimo Arcangeli non è nuovo ad azioni pubbliche a difesa della lingua italiana da tentativi di stravolgerla in nome della parità di genere. Due anni fa lanciò una analoga raccolta di firme del dissenso nei confronti dello schwa, la “e” rovesciata dal suono indistinto che, nel desiderio dei suoi promotori, dovrebbe sostituire le desinenze di genere. Quella battaglia, provocata dall’introduzione dello schwa in documenti di alcuni istituti scolastici e persino in uno del Ministero dell’Istruzione, costò ad Arcangeli insulti e minacce, evidentemente senza però indurlo a desistere.
Ma il dato interessante di queste manomissioni della lingua italiana è l’inconsistenza della loro funzione politica. Il loro anelito inclusivo, infatti, deflagra miseramente in un cortocircuito d’intenti. Se lo schwa mira a dissolvere le differenze di genere sull’altare della fluidità, il “femminile sovraesteso” si pone viceversa l’obiettivo di enfatizzare un genere sessuale. La convivenza tra le due innovazioni, pertanto, appare inattuabile non solo per le ragioni di “senso comune linguistico” sottolineate dal gruppo di docenti nella loro petizione, ma anche perché perseguono due finalità antitetiche: l’annullamento dei generi sessuali da una parte e l’accentuazione del genere sessuale femminile dall’altra.
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