Questa storia inizia in treno e dalla fine. Sono a Cracovia diretta all’aeroporto per tornare in Italia. Seduto, di fronte a me, un giovane ragazzo guarda fuori dal finestrino e tiene stretto il suo zaino. Sul binario un amico, un fratello, un amante, il fidanzato: stanno silenti e continuano a guardarsi. Il ragazzo si appoggia la mano sul petto, sul cuore e il treno parte. Vedo che i suoi occhi iniziano a riempirsi di lacrime. Guarda fuori e piange. Mi sento di offrirgli un kleenex, gli sorrido. Un movimento breve, silenzioso, lento. Un frammento di aiuto e conforto che si concentra nell’accarezzargli la mano.
Treno e occhi. Occhi e dolore. E’ quello che colse il giovane fotografo Wilhelm Brasse (Żywiec, 3 dicembre 1917 – 2012) nei ritratti esposti nel primo edificio che si incontra ad Auschwitz. Occhi impauriti come quelli di Czeslawa, occhi fieri come quelli di Zdenka, occhi rassegnati come quelli di Jozefina. Troppa fretta hanno le guide, pressate dal continuo avvicendarsi di gruppi di turisti, intente a spiegare in quel corridoio che a sinistra c’è la riproduzione dei pagliericci, a destra quella dei materassi su cui, in condizioni di sporcizia, dormivano i deportati.
“Tre volte al giorno per andare nelle latrine. Si urinavano addosso. In inverno qui si arriva a -20 gradi e si moriva anche di stenti. “Sì, lo so. E i bordelli?” Imbarazzo, e la risposta è stata “Anche qui c’era. Le donne però non erano trattate male come gli uomini”. No, signora. Dissento. Vorrei proseguire da sola, ma non si può. Si arriva nella piazza delle esecuzioni. Vorrei stare lì, a riflettere. Non c’è tempo. Riesco però in questa giornata fredda ma tersa a toccare uno di quei pali rugosi che hanno visto il sangue. Pelle contro legno. Mi appoggio e guardo in alto. E’ una preghiera che sale oltre quel gancio. Nell’azzurro, mando il mio respiro.
Si prosegue, guardi a destra, a sinistra, i blocchi qui, i blocchi là e si fa fatica ad assimilare tutto. Vorrei sapere di più sul Blocco 10 che nel 1943 divenne un centro sperimentale per la sterilità femminile diretto dal dott. Carl Clauberg.
Qui le internate scelte tra donne che avevano già partorito e tra quelle che non erano ancora in menopausa dovevano subire la sterilizzazione forzata tramite l’introduzione negli organi genitali interni di una sostanza chimica che in poche settimane avrebbe ostruito le tube, impedendo l’ovulazione. “Molte delle donne sottoposte a esperimento morirono a causa di gravi infezioni, mentre altre vennero assassinate per poterne eseguire l’autopsia e controllare lo stato di avanzamento della pratica sperimentale (…) In ogni caso, quasi sempre l’internato sottoposto a esperimenti medici finiva per essere selezionato per la camera a gas” (da Visitare Auschwitz di Carlo Saletti e Frediano Sessi, Ed. Gli specchi di Marsilio).
Si arriva al museo dove le montagne di scarpe, di valigie e di tegami inducono a farmi domande impossibili sulla vita degli altri e sui loro pensieri prima della fine. Anche qui non si ha tempo. Si attraversa una sala che espone una fila di volumi enormi: all’interno i nomi dei deportati. Ho sfogliato e la mano si è fermata a caso su Szechter Michael, nato nel 1900 a Comanesti, Romania. In rumeno il nome della città di provenienza significa “piccolo cuore”. Michael, il suo cuore lasciato là e adesso anche un po’ a me.
Non mi dilungo su forni crematori perché l’impressione più devastante l’ebbi a Dachau. Non c’erano turisti, non c’erano guide con microfoni, non c’era fretta. Ecco, qui ho la sensazione che tutto sia una macchina per turisti, non per chi vuole capire nel profondo cosa sia successo. Auschwitz-Birkenau non è Disneyland.
La stessa sensazione l’ho avuta nel ghetto ebraico di Cracovia, dove Steven Spielberg ha girato diverse scene del film “Schindler’s List”. Il cortile in cui furono deportati, uccisi e torturati uomini, donne e bambini dovrebbe essere un luogo rispettoso. Tra quelle mura, tappezzate oggi di pannelli che ricordano la storia, continua l’orda di gente multilingue che fa selfie, che fa baccano, che sgomita per fare fotografie a una scala e un patio. A due passi, stride il manichino vestito di tulle fuxia che fa da attrazione per il bazaar di abiti in quel cortile. Come stridono i negozi di souvenirs, la caffetteria, l’antiquario che vende cianfrusaglia del secolo scorso.
Finito il tour al campo di concentramento, passeggio per Oświęcim – in tedesco appunto Auschwitz – che è un delizioso paese attraversato da quel fiume che ha visto amalgamare acqua a cenere. C’è il sole e girovagando attorno alla piazza, penso a chi sia riuscito a farcela. Oskar Schindler ne ha salvati più di mille e merita la visita a quella che era la sua fabbrica di Cracovia. È un percorso museale, interattivo, ben fatto. Storia, audio, urla, riproduzione di parti del ghetto, del campo di lavoro, carteggi. Mi vengono i brividi ed è impossibile non commuoversi davanti a due meravigliose installazioni: una nella stanza che fu l’ufficio di Schindler e l’altra che porta a camminare su un pavimento di gomma nera e ti conduce all’uscita. Di fronte, una parete con un telo scuro spiegazzato mostra una serie di primi piani in bianco e nero. Sono gli occhi di chi è sopravvissuto. Avrei voluto fermarmi, dire una preghiera. Anche qui non c’è tempo.
Saluto la bella Cracovia e torno con gli occhi negli occhi: quelli dei ritratti di Brasse verso la morte e quelli tristi, ma con una vita davanti, del giovane ragazzo sul treno.
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