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Muhammad Ali, George Foreman, un ko nella leggenda della boxe



È stato tra gli incontri più celebri della boxe, quello svoltosi nel 1974 a Kinshasa, in Africa: Muhammad Alì contro George Foreman. Stile pugilistico e personalità agli opposti per una sfida epica. La straordinaria cronaca di un libro ce la fa rivivere.

Pregavano. Cinque minuti prima di salire sul ring per affrontare il match più leggendario della storia della boxe, il campione mondiale dei pesi massimi George Foreman, il suo allenatore Archie Moore, il manager Dick Sadler e un altro collaboratore erano immobili nello spogliatoio con le mani unite; un cerchio magico. Lo sfidante Muhammad Alì (più i 30 mila nello stadio di Kinshasa) li aspettava passeggiando nervosamente sul tappeto azzurro, fra le corde, con la vestaglia color perla. Loro erano in ritardo perché stavano salmodiando. Pregavano per la vita di Alì. Il rivale. «Pregare perché l’avversario non si faccia troppo male era un modo per far sentire Foreman ancora più invincibile».

Comincia con un sottile sotterfugio psicologico, nel cuore di tenebra dell’Africa conradiana (Zaire, ex Congo belga), l’incontro di pugilato che ha cambiato la storia dello sport, facendolo entrare nella modernità televisiva (quasi un miliardo di telespettatori collegato in diretta da tutto il pianeta), trasformandolo in un paradigma sociale, razziale, politico, economico, perfino letterario e cinematografico. Tutto in una notte di 50 anni fa (era il 30 ottobre 1974) alla vigilia della stagione delle piogge pronta a scatenarsi qualche minuto dopo l’ultimo gong. «Rumble in the Jungle» aveva chiamato l’evento l’organizzatore Don King a caccia di immagini emotional da vendere, e il terremoto nella giungla avvenne davvero.

Oggi, travolti da facce di pseudo campioni che appaiono e scompaiono in un amen senza lasciare traccia, quei due volti immortali ce li eravamo dimenticati. Li ricorda mezzo secolo dopo a tutti noi un libro prezioso, dal titolo cinematografico: Giù la testa (Hoepli editore). L’ha scritto un fuoriclasse di storie sportive, Claudio Colombo, già inviato del Corriere della Sera, testimone dell’epoca d’oro di pugilato e atletica. Ha suddiviso la narrazione in otto round, quelli che permisero al genio ribelle Muhammad Alì di sconfiggere il sublime batticarne George Foreman. E come un entomologo li ha analizzati al microscopio, fissandoli pugno dopo pugno, fino agli ultimi otto che schiantarono il favorito Foreman («un bersaglio di quasi cento chili svuotato di ogni nervo, muscolo, energia») e fecero tornare Alì sul trono mondiale dei pesi massimi.

Ma attenzione, questo non è solo un libro di sport perché ciò che accadde a Kinshasa deborda, rompe le corde, contamina qualunque cosa, ci esplode in faccia con schegge culturali che costringono il lettore a ricomporre il puzzle per capire le contraddizioni di quegli anni. Dalla politica (Alì che si rifiuta da campione di andare a combattere in Vietnam perché «i vietcong non mi hanno mai detto negro» e viene squalificato) alla sociologia. Dalle differenze razziali (Alì amico di Malcolm X, Foreman nero integrato con le Stars and Stripes sul cuore) ai maneggi del premier africano Mobutu Sese Seko, autocrate con la bustina leopardata in testa che organizza il match per dare un’immagine credibile alla sua dittatura sanguinaria.

Giù la testa parla di tutto. Anche di arte, perché mentre Foreman comincia ad afflosciarsi nell’iconica foto dell’ultimo atto, Alì non fa partire il pugno demolitore «per non togliere l’armonia dell’effetto plastico di un corpo che cade» (dirà il logorroico «labbro» di Louisville). Anche di colonialismo e marketing, parla. Quando Alì scende con la sua tribù all’aeroporto di Kinshasa si accorge che qualche migliaio di zairesi lo sta aspettando. Allora chiede al suo allenatore Angelo Dundee: «Chi odiano questi?». «Gli oppressori belgi di re Leopoldo». Attraversando le ali di folla grida con la consueta faccia tosta: «Foreman è un belga!». Qualche ora dopo atterra il rivale, seguito al guinzaglio dallo stupendo cane lupo portafortuna di nome Diego. Errore imperdonabile: il pastore tedesco, utilizzato dalla polizia belga per i rastrellamenti nei villaggi, era il simbolo della tirannide coloniale. Da quel momento la folla fu tutta per l’altro e scandì il grido «Alì buma yè», Alì uccidilo. Durante il terremoto nella giungla si cominciò a capire che la narrazione (anche tossica) sarebbe diventata decisiva nell’indirizzare i gusti del mondo.

«Alì e George erano due uomini agli antipodi. Uno, rodomontesco paladino dei diritti civili. L’altro, eroe nero dell’integrazione e interprete di quei valori - stabilità, benessere, ordine sociale - sui quali poggiava la società dominante americana» spiega Claudio Colombo. «Sul ring Alì impugnava il fioretto, Foreman brandiva la clava. Tecnica raffinata contro potenza devastante. Era come se le due anime fondative del pugilato si fossero date appuntamento nel cuore dell’Africa per la resa dei conti finale». Tutto troppo epico per rimanere dentro una foto ricordo. Infatti attorno a quella sfida (allenamenti, folclore, polemiche e poi i pugni) furono girate 400 ore di pellicola; servirono 12 anni per trovare i soldi necessari a montarle in 90 minuti di documentario. Poi altri 11 anni perché arrivasse qualcuno così folle da distribuirlo nelle sale. Stiamo parlando di When we were kings (Quando eravamo re) di Leon Gast, finanziato dal produttore di musica leggera David Sonenberg, che un giorno era in ufficio a guardare un film su Alì alla televisione. Entrarono tre giovani rapper e uno di loro chiese: «Quello chi è?». Il manager rimase di sasso, i «fratelli neri» non ne sapevano niente. Eppure negli anni Ottanta Muhammad Alì era stato il personaggio più conosciuto del mondo secondo il Guinness dei primati; al secondo posto c’era Abraham Lincoln, al terzo Gesù, al quarto Napoleone Bonaparte. Quello chi è? Bisognava rimediare e Sonenberg mise mano al portafoglio.

Dopo il terremoto nella giungla, la pioggia allagò lo stadio lavando via il sangue dei prigionieri politici che Mobutu teneva nelle viscere di pietra. E qualcuno parlò di combine. L’autore li chiama «i soliti sospetti» che accompagnavano la boxe, vittima degli anni in cui «le grandi sfide erano funzionali al gigantesco fenomeno delle scommesse clandestine gestite dalla mafia». In Italia si allestì un proto-talk show con innocentisti e colpevolisti, questi ultimi zittiti dall’inviato della Gazzetta dello Sport, Roberto Fazi, che stava a bordo-ring: «Per sostenere la tesi dell’incontro truccato qualcuno dice che Alì sa recitare, e avete ragione. Ma nel caso in questione chi avrebbe dovuto essere una specie di incrocio fra Muzio Scevola ed Ermete Zacconi è George Foreman». Lo stesso favorito ammise la sconfitta con la celebre espressione «rope a dope», presa al laccio dell’imbecille. «Dove l’imbecille era proprio il sottoscritto».

Il destino dei due uomini che fecero la leggenda non avrebbe potuto essere più divergente. Muhammad Alì cadde e si rialzò ancora conquistando il titolo per la terza volta. Diventò un’icona pop anche grazie al capolavoro letterario The Fight di Norman Mailer. Fu testimonial della religione islamica, negoziò il rilascio di ostaggi americani con Saddam Hussein. Fu vittima del morbo di Parkinson, poi ultimo straziante tedoforo ai giochi di Atlanta del 1996 e fino alla morte testimonial della propria grandezza. John Lennon comprò a un’asta milionaria i suoi calzoncini insanguinati. Gli studenti di Harvard lo ascoltarono mentre recitava la poesia più corta del mondo, ovviamente di sua invenzione: «Me we», io noi.

Foreman semplicemente scivolò dentro l’oblio, disse che gli era apparso Dio e lo aveva esortato a cambiare vita. Diventò ministro di culto in una chiesa cristiano-evangelica di Houston, Texas. Tornò a combattere, si ritirò definitivamente a 49 anni e fece fortuna vendendo una bistecchiera che grigliava senza grassi: ne vendette 100 milioni di pezzi in tutto il mondo. Ha avuto sei mogli e 12 figli (i 5 maschi si chiamano tutti George) e ha sempre amato il silenzio, sovrastato dalla verbosità molesta del suo rivale. Leggenda vuole che l’unica persona a zittire Alì fu una hostess, che durante un volo gli chiese di mettere la cintura di sicurezza. Il campione tuonò: «Superman non ha bisogno della cintura di sicurezza». E lei, con il più etereo dei pugni in faccia: «Superman non ha bisogno dell’aereo».

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