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Lo stile «Masaniello» di De Luca è contagioso

Combattenti forse per vocazione, capipopolo sicuramente per autoconservazione politica. Il modello assoluto è stato - e rimane - Vincenzo De Luca, che ha elevato l’arroganza a prassi di governo. Ma lo stile

Ogni mattina, nella savana partenopea, un governatore si sveglia. A dispetto delle settantaquattro primavere, per non perire politicamente, sa che dovrà correre più veloce dei ferini avversari. Il celebre proverbio africano sulla gazzella e il leone diventa il mantra del governatore campano, Vincenzo De Luca. Costretto a trasformarsi nella versione triviale e assatanata di Masaniello, il pescivendolo pazzoide che nel 1647 capeggiò la rivolta dei napoletani contro gli spagnoli. E dunque: improperi, insulti, aggressioni. Don Vincenzo, per scongiurare l’oblio e guadagnare il terzo mandato, è pronto a qualsiasi guasconata. Lui resta inarrivabile. Eppure, tra l’arrembante sinistra e il misconosciuto «centrino», si agitano scatenati e promettenti capipopolo. Proprio mentre incombono decisive elezioni europee.

Professione Masaniello. Certo, bisogna avere una certa predisposizione. Tribuni si nasce, ma soprattutto si diventa. Servono costanza e abnegazione. Non c’è niente di semplice o improvvisato. Sceneggiate e insolentiti vanno scelti con perizia. La politica sa essere spietata. Come al supermercato, bisogna evitare di finire nello scaffale in basso, quello all’altezza del passeggino. Lo sa benissimo pure il De Luca siciliano: Cateno, detto «Scateno». Nel 2006 si presenta in mutande nel parlamentino isolano per protestare contro i tagli nelle forniture d’acqua nelle Eolie. Replica un anno dopo: la Bibbia in una mano, un Pinocchio nell’altra. Più recentemente, soprannomen omen, protesta contro il «green pass» incatenandosi al molo di Messina, dov’è stato sindaco fino al 2022. Si dimette per fondare il partito più personalistico e ribaldo in circolazione: Sud chiama Nord. Oltre all’equità territoriale, il programma prevede provocazioni e contumelie. Funziona. Il movimento elegge due parlamentari alle politiche del 2022. E «Scateno», aspirante governatore, arriva anche secondo alle Regionali: con un sontuoso 24 per cento. Adesso è onorevolino isolano e sindaco di Taormina. Non basta. Anche il profondo Settentrione, dove vivono frotte di emigrati siculi, ha bisogno di eroi popolari. Con inimmaginabile estro, lo scorso autunno, l’altro De Luca si candida dunque in Brianza, dov’è in palio il seggio senatoriale che fu di Silvio Berlusconi. Trasforma la sonnacchiosa tornata nelle suppletive più scoppiettanti del Dopoguerra. Raccoglie un ingeneroso 1,76 per cento. Il seme della rivoluzione, però, è piantato. Pure a Monza e dintorni.

Dopo il maschio tentativo in Brianza, adesso «Scateno» sta con i trattori. Regola numero uno per ogni tribuno: fiutare l’aria. Monta la protesta degli agricoltori contro le vessatorie norme di Bruxelles. Incidentalmente, la prossima tornata utile sarà proprio quella delle Europee. Urgono decisive battaglie. E nuovi alleati, per cercare di superare l’ostica soglia di sbarramento del quattro per cento. È da escludere però un apparentamento con il distinto Churchill dei Parioli, Carlo Calenda. Commentando i «calci in culo» promessi dal sindaco di Taormina al comico Angelo Duro, reo di aver imbrattato i suoi manifesti, il leader di Azione analizza: «Questi e altri personaggi hanno compreso che fare i buffoni maleducati è il modo più semplice per essere votati. La democrazia corre il rischio di finire nella farsa». Rocciosa replica di «Scateno»: «La differenza tra me e Calenda è che io ho i calli nelle mani, lui li ha nel culo per le tante poltrone che ha avuto in regalo soprattutto da Renzi».

Scatenatissimo in vista delle Europee è pure Pasquale Tridico, già presidente dell’Inps e padre del reddito di cittadinanza. Chi meglio di lui, dunque, per aizzare i tanti scioperati a cui il governo Meloni ha tolto il divano da sotto la schiena? Sarà lui il nuovo Masaniello grillino, in trasferta a Bruxelles per conto degli inconsolabili ex sussidiati. Capolista dei Cinque stelle nella circoscrizione meridionale. Vessillifero di salario minimo, assegni a ufo e aiuti vari. Niente parolacce. S’annuncia, comunque, una campagna elettorale scoppiettante: cifre, capziosità e ideologia. Degna di un altro napoletano illustrissimo: Achille Lauro, l’ex sindaco che dava una scarpa prima del voto e l’altra fuori dal seggio elettorale. Un voto ragionato, insomma, preluderà al ripristino delle guarentigie grilline. Promesso. Abbiate fede. Votate e fate votare Tridico. Il prode Pasquale, poi, è fortunatissimo. Lo manda Giuseppe Conte, l’arrembante leader del Movimento. Passato, senza fare un plissé, da Palazzo Chigi alla guida del movimento del «Vaffa».

Lui è l’insuperabile evoluzione di questo duro mestiere. È l’arruffapopolo in pochette. Nel giorno della vittoria in Sardegna della sua Alessandra Todde, passa da aizzatore in piazza contro la polizia meloniana a stornello della neoeletta. Imbraccia la chitarra e intona Pino Daniele: «Tanto l’aria s’adda cagna’». Già, l’aria deve cambiare. Nessuno lo sa meglio di lui: il più dotato trasformista politico in circolazione. Beppe Grillo, boccaccesco fondatore dei Cinque stelle, schiuma. Anni di vaffanculo in piazza e coronarie a rischio. Poi, arriva l’azzimato Giuseppi. Da farsesco Peppiniello Appulo a Masaniello di Volturara. La mutazione è istantanea. S’infervora con gli alleati: «Non siamo una succursale del Pd!». Duella con Mario Draghi, l’allora premier, sull’aumento delle spese militari: «Pensi piuttosto alle famiglie!». Sfida persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Non rinunciamo alle nostre posizioni!». Dopo averlo visto in versione tarantolata, l’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, illumina i suoi: «Ma non lo vedete che sta recitando?». Gli aspiranti rivoluzionari prendano appunti. Oppure, se hanno stazza da rugbista e occhio di tigre alla Rocky, imparino dall’ultimo arrivato: il sindaco di Terni, Stefano Bandecchi. Diventato la più riuscita imitazione di Maurizio Crozza dopo De Luca, inteso come l’originale campano. Sembrava che il mercato fosse saturo. Ma Bandecchi è un fuoriclasse.

Spintoni, testate, risse. Infine, irrevocabili dimissioni ritrattate dopo pochi giorni. È l’ultimo esperimento di sociologia politica: dove può arrivare la provocazione? Al momento, pare non esistano confini. «Se ogni cinque anni dobbiamo avere un duce allora voglio essere io» anticipa il sindaco con piglio mussoliniano. «Quando sarò a Palazzo Chigi le cose cambieranno» promette. E alle Europee «andremo sopra il 4 per cento». Il suo partito, Alternativa popolare, suonerà la riscossa. Ma al voto mancano tre mesi. Il meglio, ovviamente, deve ancora venire. Infine, il maestro: Don Vincenzo. Il viceré campano mira a lambire l’eternità. Tempi duri. Nonostante il quotidiano profluvio di insulti, le cose non vanno come sperato. Sperava di scalzare la detestata segretaria piddina, Elly Schlein. Ma la vittoria in Sardegna rilancia lei, assieme alla tribolata alleanza tra democratici e pentastellati.

De Luca insiste: il granducato campano non ha recepito la legge nazionale sul tetto dei due mandati. Dunque, lui è candidabile. Da solo, però. Senza partiti. A rischio ricorsi. Sconfitta certa. Come dimostra il caso dell’ex omologo sardo, Renato Soru, arrivato terzo nella tornata sarda. Napoli, tra l’altro, vanta già un laboratorio giallorosso. Il sindaco è Gaetano Manfredi, già ministro dell’Università nel Conte bis. Il suo mandato scade nel 2025: un anno prima di quello di Don Vincenzo. Chi, meglio di lui, come candidato governatore? Ma scalpita pure Roberto Fico: ex presidente della Camera, sacrificato dalla regola del secondo mandato. Dunque, meritevolissimo.

A Don Vincenzo non resta che rasentare la follia. Non è solo Masaniello ma pure Franceschiello, altro napoletano Illustre. L’ultimo Re delle due Sicilie al suo scombiccherato esercito intimava: «Facite ’a faccia feroce». Così, il governatore guida 200 sindaci alla volta della capitale per protestare contro l’autonomia. «Imbecilli, farabutti e delinquenti politici» deflagra. I governanti, s’intende. Niente di nuovo. Già due anni fa insolentiva l’avversario allora più in voga, Matteo Salvini, leader della Lega. Un studiato crescendo: «Cafone», «equino,» «somaro geneticamente puro», «il Neanderthal». Fino al notevole: «Ha la faccia come il suo fondoschiena, peraltro usurato». Stavolta però, complice l’effige di Meloni bruciata in piazza, interviene persino Mattarella a esecrare: «Insulti, volgarità di linguaggio, interventi privi di contenuto ma colmi di aggressività verbale». Monito finale: «Mi auguro che la politica riaffermi sempre e al più presto la sua autenticità, nelle sue forme migliori». Sì, ciao.

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