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I pentiti del concorso esterno



Creare una norma ad hoc per tipicizzare il reato di chi aiuta fattivamente la mafia ma senza farne parte. La proposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio ha scatenato un vespaio e attacchi politici, eppure in molti - compresi molti da sinistra - in passato avevano sostenuto la stessa necessità. Vale la pena ricordarli.

L'Antimafia conosce ragioni che la ragione non conosce. E così se oggi il ministro della Giustizia Carlo Nordio lancia l’idea di tipicizzare il reato di concorso esterno, al fine di chiarire in sede legislativa le condotte vietate e non restare aggrappati alle chiavi di lettura sempre diverse dei tribunali, si scatena una grandinata di indignate reazioni, arrivate al punto di imputare al governo il progetto oscuro di demolire la lotta alla criminalità organizzata.

Allora è giusto ricordare - perché la memoria è la linfa della lotta alla mafia, come si sa - uno strano processo di rimozione collettiva che ha colpito autorevoli esponenti della sinistra e della stessa magistratura. Che, incredibile a dirsi, fino a ieri sostenevano le stesse tesi del Guardasigilli del governo Meloni senza, però, finire lapidati. Ottenendo, piuttosto, parole di apprezzamento per il coraggio e la lungimiranza.

È il caso di Paola Severino, anche lei ministro della Giustizia, guarda un po’, all’epoca del loden di Mario Monti. Partecipando a un convegno organizzato dall’Anm, il sindacato delle toghe, la ministra definì «sensata e da approfondire» la proposta di mettere ordine nel concorso esterno in associazione mafiosa avanzata, in quella sede, dagli stessi magistrati. «La esamineremo con grande cura: eviterebbe margini di incertezza nell’interpretazione giurisprudenziale», spiegò la ministra. Aggiungendo inoltre che la «tipicizzazione di queste condotte rappresenta il tentativo adeguato di dare certezza nella distinzione tra consigli leciti ed illeciti». Ovvero, quel che ha sostenuto Nordio senza però il fuoco di sbarramento sull’attuale ministro di via Arenula.

E che dire del Lothar del Partito democratico, l’inaffondabile calabrese Marco Minniti che, in un altro convegno organizzato dall’Università di Palermo, sentenziò da viceministro dell’Interno: «La mafia, a differenza delle organizzazioni criminali semplici, porta scritto nel suo Dna il principio di contiguità e di infiltrazione. È quella zona grigia sulla quale non possiamo abbassare la guardia. Per questo concordo pienamente con la richiesta di “tipizzare” il concorso esterno in associazione mafiosa». Chapeau.

Il post comunista Francesco Forgione, presidente della commissione parlamentare Antimafia, fu ancora più tranchant: «C’è l’esigenza di una tipizzazione del reato di concorso esterno, da ridiscutere anche nell’ambito di un testo unico delle norme antimafia. Capire come colpire quella borghesia mafiosa in contatto col mondo istituzionale, imprenditoriale e politico, senza il concorso dei quali la mafia non sopravvive, è un tema ancora aperto».

Per un altro presidente dell’Antimafia come Beppe Lumia, non «si è ancora trovato un sistema per codificare correttamente il comportamento illegale di chi favorisce le mafie senza esserne componente». A meno che, aggiunse l’esponente Pds, «non ci sia qualcuno che pensi che le mafie esercitano il loro potere devastante senza pesanti collusioni nella società».

Da qui l’invito: «Invece di scandalizzarsi bisogna pensare a come “tipizzare” questo reato, perseguendo la linea di una legislazione antimafia che sia capace di colpire anche le mafie più moderne, sia nelle ricchezze che nelle collusioni».

Repliche feroci a questi suggerimenti? Zero. Tutti ad applaudire. E chissà come mai, in quel periodo, per i progressisti risultasse così urgente intervenire sul concorso esterno mentre le emergenze odierne sarebbero altre.

E vogliamo parlare dei magistrati, allora? Iniziamo dal più autorevole di quella stagione, l’ex procuratore di Palermo Piero Grasso diventato successivamente presidente del Senato. Ecco che cosa affermava quando era impegnato nella titanica lotta a Cosa nostra: «C’è una contiguità alla mafia che va perseguita. Il problema è trovare la forma tecnico-giuridica migliore per colpire l’apporto che si dà alla criminalità organizzata». Il che tradotto significa, appunto, la costruzione di un recinto normativo abbastanza robusto per impedire interpretazioni sdrucciolevoli da parte dei giudici.

Evidentemente non soddisfatto del suo primo appello, Grasso tornò a esternare il suo pensiero in maniera molto più chiara qualche tempo dopo, e lo fece da procuratore nazionale antimafia. Quindi in qualità di massima autorità investigativa sul fenomeno malavitoso.

«Sul concorso esterno all’associazione mafiosa c’è una giurisprudenza oscillante, ci sono valutazioni contrastanti. Sarebbe necessario un intervento del legislatore», propose. Oggi che il legislatore potrebbe accontentarlo, Grasso è sparito dai radar. Si starà godendo la pensione, presumibilmente.

Ma occupiamoci di un’altra star in toga come Antonino Ingroia, l’«inventore» del fascicolo sulla fantasiosa trattativa Stato-mafia demolita dalla Cassazione. Secondo l’allora pubblico ministero palermitano, sul concorso esterno «si potrebbe articolare una norma equilibrata, con un ambito di applicabilità né troppo ampio né troppo ristretto». Ma per arrivare a questa soluzione, secondo Ingroia, «sarebbe necessario confrontarsi in modo civile e serio sulle possibilità di coniare una previsione di legge che stabilizzi i presupposti del reato di “sostegno alla mafia” oggi sanzionata col concorso esterno».

Ingroia, che affidò queste sue riflessioni a una intervista pubblicata sul periodico siciliano S, non chiudeva la porta a una proposta di legge per definire il reato, finora affidato solo alle interpretazioni, a patto di garantire «fiducia reciproca fra politica e magistratura, riconoscimento dell’esigenza di punire condotte di questo genere e ricerca comune di un punto di equilibrio». Che la fiducia valga solo con la sinistra al governo, forse?

Restiamo sempre in terra sicula con Sergio Lari, ex procuratore aggiunto nel capoluogo. Che in una chiacchierata col quotidiano l’Unità fu di una chiarezza adamantina: «L’attuale normativa e l’evoluzione giurisprudenziale sul concorso esterno in associazione mafiosa non consentono a mio avviso un efficace intervento penale-repressivo». Bum.

Proseguiamo la galleria di illustri pareri con Raffaele Cantone, l’ex cacciatore dei Casalesi, già presidente dell’Anticorruzione e attuale procuratore di Perugia. Questo il suo pensiero: «Credo sia arrivato il momento, ma non so se ci sono le condizioni politico-ambientali per un intervento anche sul piano legislativo, per intervenire sulla disciplina del concorso esterno in associazione mafiosa».

Secondo il magistrato napoletano, lo strumento del concorso esterno è «uno strumento indispensabile nella lotta alla mafia che consente di punire le condotte di chi mafioso non è, ma che aiuta le mafie». E, proprio per questo, Cantone invitò il legislatore a intervenire perché «molte volte nell’elaborazione pratica, non sempre si capisce quali sono i confini, e pertanto è necessario che si individui con chiarezza, nell’interesse del cittadino, chi opera in concorso esterno e chi no».

Un’iniziativa del Parlamento, dunque, che a suo dire avrebbe dovuto riguardare finanche la definizione della pena. «Credo che su questo fronte il legislatore debba avere un po’ di coraggio, operando una differenziazione perché non possiamo ritenere che chi partecipa venga punito allo stesso modo di chi è concorrente, per cui è necessario che il legislatore operi un intervento dal punto di vista della dosimetria della pena che consenta di punire meno gravemente il concorrente esterno rispetto al partecipante». Addirittura «meno gravemente», eresia...

Ecco, questa è la necessaria operazione di memoria da fare, per evitare la propaganda e affrontare davvero i problemi. Se le riflessioni di cui sopra fossero state espresse da un politico di centrodestra, sarebbero arrivati i caschi blu dell’Onu. O meglio: Nanni Moretti ci avrebbe imbastito almeno un paio di film in stile Il caimano. Invece, evviva la democrazia, siamo solo alla tragicommedia politica

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