Il governo di Giorgia Meloni appare determinato a uscire dall’accordo sulle Vie della Seta, ma non fa mistero di temere le ritorsioni di Pechino. Per questa ragione, il presidente del Consiglio rischia di impelagarsi in un negoziato con i cinesi in cui il pericolo è che la proverbiale toppa (leggi: accordi riparatori con il Dragone) sia anche peggio del buco (accordo sulle Vie della Seta privo di sostanza ma ricco di valenza simbolica). Sullo sfondo, c’è con ogni probabilità una percezione errata della traiettoria imboccata da Xi Jinping. Procediamo con ordine.
La narrazione trionfale di una Cina che, forte in casa propria, contende agli Stati Uniti (e ai loro alleati) aree di Africa, Golfo e Mediterraneo si mostra fallace. L’arresto nei giorni scorsi dell’ex premier pakistano Imran Khan e il putiferio che l’episodio ha sollevato ci ricordano che la Pechino non è messo affatto bene nel proprio vicinato prossimo.
Il Pakistan, in teoria incrollabile alleato di Pechino inserito in profondità nei disegni strategici cinesi, sul piano geopolitico è un autentico termitaio. Per giunta potenza atomica, dunque difficile da «strattonare» più di tanto. Un ruolo decisivo lo giocano gli immancabili apparati pakistani, da sempre maestri di finte e controfinte al punto da divenire nel corso degli anni l’oggetto di serie televisive di discreto successo. È il caso di Bard of Blood (Netflix), in cui i ribelli del Baluchistan altro non sono che docili burattini nelle mani dei cinici servizi pakistani e infliggono danni terribili ora agli uni ora agli altri. A farne le spese sono anche i cinesi, che dall’instabile vicino hanno avuto (anche nella realtà, non solo nella fiction televisiva) la concessione del porto di Gwadar, fondamentale per dare corpo alle Vie della seta marittime.
L’impressionante complessità del Pakistan fa il pari con la situazione dell’Afghanistan, abbandonato in fretta e furia dagli americani. Da secoli refrattario a qualsiasi dominatore straniero, difficilmente questa repubblica islamica potrà dare a Pechino quello che altri imperi - britannico, zarista, sovietico, americano - hanno cercato invano di stringere tra le dita. Uno sguardo alle mappe geografiche, poi, ci descrive una Cina letteralmente circondata da problemi di ogni tipo. A nord la Russia, a ovest i turcofoni (come gli uiguri dello Xinjiang, che Pechino cerca di reprimere con immane ferocia), a sud l’India, a est il mare - tanto - e il Giappone, che con Pechino ha già avuto (e vinto) sanguinosi conflitti. La stessa Corea del Nord, perlopiù descritta come una potenza ancillare cinese, è in realtà una potenza nucleare alla stregua del Pakistan.
Per molti versi, la situazione della Cina di Xi ricorda da vicino quello della Germania post-unitaria del XIX secolo. Mentre Bismarck era molto accorto nel «premere» ma non «strappare», il Kaiser Guglielmo II non aveva la stessa sensibilità. In men che non si dica, sbarazzatosi del vecchio cancelliere di ferro e in ostaggio delle camarille di corte prussiane, Guglielmo II alimentò un colossale sforzo da parte dell’industria militare nazionale. In questa fase la navalmeccanica sotto la guida del Grand’Ammiraglio Alfred von Tirpitz, divenuto segretario di Stato alla Marina imperiale germanica, fece la parte del leone. La foga tedesca ebbe però come risultato quello di mettere sul chi va là le grandi potenze dell’epoca, Inghilterra in testa. Un altro aspetto su cui Guglielmo II si rivelò pessimo discepolo di Bismarck era il divide et impera. Bismarck era attento a non aprire troppi fronti in simultanea. Un problema alla volta, insomma. Guglielmo II invece riuscì a compattare moltissime potenze contro Germania e Austria.
Anni dopo, Adolf Hitler commise lo stesso errore strategico, violando il patto Molotov-Von Ribbentrop e invadendo l’Unione Sovietica. Xi Jinping, grande accentratore di potere, a differenza dei suoi predecessori non è un leader paziente. Forse è un suo tratto caratteriale, o forse la fa da padrone l’ansia di espandersi per evitare che la Cina si accartocci sotto il peso dei suoi problemi interni (demografia in primis). Oltre alle continue minacce a Taiwan, le cronache registrano anche il recente sconfinamento di poliziotti cinesi a Ulan Bator, la capitale della Mongolia, per rapire e portare in Cina lo scrittore Lhamjab Borjigin. Il nervosismo di Pechino è palpabile.
L'autore, Francesco Galietti, è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar