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Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria, Serbia, Moldavia... Sono molti i Paesi europei che si ribellano alle sanzioni anti-russe deliberate da Bruxelles: sia per motivi economici sia per storici sentimenti filo Putin. Un’opposizione che crea instabilità nella Ue e che, proprio per questo, viene alimentata dal Cremlino.

«Vergogna, vergogna, prima la Repubblica Ceca» urlavano migliaia di persone scese in piazza a Praga il 28 settembre per protestare contro il governo, l’inflazione, i rincari energetici e le sanzioni europee alla Russia per la guerra in Ucraina, considerate la madre di tutti i mali. Oltre alle bandiere nazionali sventolavano quelle blu con le stelline Ue sovrastate da una «x» rossa. In piazza c’erano sia i comunisti sia gli ultranazionalisti con l’europarlamentare Christine Anderson dell’Afd, il partito di estrema destra tedesco, che dichiarava: «La vostra lotta è la mia lotta».

Da Praga all’Ungheria passando per i serbi, la Bulgaria e la piccola Moldavia, una fetta dell’Est Europa si ribella al boomerang economico delle sanzioni, allo shock energetico e alla linea anti russa dura e pura. «Ho assistito a molte sedute del parlamento di Belgrado con diversi deputati che gridavano “Serbia è Russia”: 70 mila persone in piazza a Praga non sono poche. E se l’Ungheria utilizzasse il veto su nuove sanzioni a Mosca sarebbe clamoroso» spiega Aldo Ferrari. Il docente dell’università Ca’ Foscari di Venezia e direttore delle ricerche dell’Istituto di studi di politica internazionale per la Russia, Caucaso e Asia centrale aggiunge che «ci sono sentimenti filo russi in quattro-cinque paesi dell’Europa orientale per interessi politici o economici ed energetici, ma sono ancora punture di spillo».

Il caso più eclatante, all’interno dell’Unione europea, è quello ungherese. Il 26 settembre il premier, Viktor Orbán, annuncia all’agenza di stampa Tass un referendum sulle sanzioni Ue contro la Russia. «Sono state introdotte in maniera non democratica, perché decise dai burocrati di Bruxelles, ma gli europei ne pagano il prezzo. Per la prima volta in Europa, in Ungheria, chiederemo il parere della gente sulle sanzioni» sostiene il premier. «Gli ungheresi saranno in grado di dire se le sostengono e se sono favorevoli all’introduzione di altre misure».

L’ultimo braccio di ferro fra Budapest e Bruxelles riguarda i due nuovi reattori per la centrale atomica di Paks a 100 chilometri dalla capitale magiara. Un investimento di 12,5 miliardi di euro finanziato all’80 per cento da un prestito russo. Il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó ha comunicato, a fine settembre, che è iniziata la produzione delle unità in Russia. Il suo Paese dipende per l’80 per cento del gas e il 65 per cento del petrolio dalle importazioni da Mosca. Per questo motivo l’Ungheria si oppone a ulteriori sanzioni in campo energetico. Orbán è stato l’unico leader dell’Unione europea a essersi recato a Mosca per i funerali di Michail Gorbacëv. Praga, come Budapest, fu invasa dai carri armati dell’Armata rossa, ma il 3 settembre sono scese in piazza San Venceslao, quella di Jan Palach e della caduta del comunismo, 70 mila persone. Il leader populista Ladislav Vrabel, lui stesso stupito dalla partecipazione, chiede un accordo con la Russia per il costo del gas. E vuole le dimissioni del «governo che ci sta portano sull’orlo della guerra e del collasso economico».

Il 2 ottobre si sono svolte in Bulgaria le elezioni anticipate, le quarte in due anni. Il Cremlino considera il Paese il ventre molle del Vecchio continente. Prima dell’invasione dell’Ucraina, nel 2020, il 73 per cento dei bulgari era favorevole alla Russia e solo il 42 per cento alla Nato. Le forze di sinistra, come i socialisti, si oppongono all’invio di armi pesanti a Kiev e puntano sulla neutralità, anche se Sofia è schierata con l’Occidente nel conflitto. L’unico partito apertamente pro Putin è il nazionalista radicale Vazrazhdane (Rinascita). In realtà forze ben più potenti sarebbero favorevoli a Mosca, anche se non lo dichiarano ufficialmente. A cominciare dal presidente della Repubblica Rumen Radev e il partito conservatore Gerb, che ha vinto le elezioni con il 25 per cento dei voti. La buona notizia è che dal primo ottobre la Bulgaria ha inaugurato l’interconnessione con la Grecia attraverso il gasdotto Igb. Grazie a una capacità massima di 5 miliardi di metri cubi permetterà alla sua economia di sganciarsi dalle forniture russe con il gas azero.

Gli alleati di ferro del Cremlino in Europa dell’Est sono i serbi: solo per il 26 per cento di loro imputa alla Russia il conflitto ucraino. La Serbia è l’unico Stato nella regione balcanica, assieme alla Bosnia, a non aver imposto sanzioni per la guerra. E il Parlamento europeo minaccia Belgrado di tagliare fuori il Paese dall’adesione all’Ue. La minaccia più grave è la cancellazione di 14 miliardi di euro di fondi europei. Aleksander Vucic, presidente del Partito progressista al potere, di stampo nazionalista, non demorde e difende la storica vicinanza con Mosca, che riguarda non solo la fratellanza panslava, ma anche la cooperazione militare. Alla sua destra il leader radicale, Vojislav Seselj, si è congratulato con «il popolo russo della repubblica popolare di Donetsk, di Lugansk, di Zaporizhzhia, di Kherson per il referendum condotto con successo e il ritorno alla madrepatria».

Vero alfiere putiniano è Milorad Dodik, leader dei serbi di Bosnia, uscito vincitore dalle elezioni del 2 ottobre. «La Bosnia è l’anello più debole. Dodik è la chiara espressione della penetrazione russa» osserva Giuseppe Razza, esperto di cooperazione internazionale nei Balcani da 30 anni. «Il Cremlino ha interesse a destabilizzare quest’area e, di riflesso, è un pericolo per l’Italia perchè rischiamo nuove tensioni alle porte di casa nostra» Dodik, ex pupillo degli americani, sogna di unirsi a Belgrado e ha ribadito il patto con Mosca il 20 settembre, recandosi nella capitale per incontrare il nuovo Zar. «Non dimentichiamo poi il Montenegro. C’è stato un tentativo di golpe supportato dai russi per non fare entrare il Paese nella Nato» prosegue Razza. «Persino la chiesa ortodossa è fortemente coinvolta».

Anche nella piccola e fragile Moldavia soffia un vento controcorrente. Il giorno della «vittoria patriottica» dell’Urss nella Seconda guerra mondiale Aldo Ferrari fa notare che «un terzo della popolazione era in piazza per celebrarla nonostante il divieto della presidente Maia Sandu, che è filo occidentale». Autore del libro Storia della Crimea dall’antichità a oggi, il docente sottolinea «che esistono realtà sconosciute sistematicamente favorevoli alla Russia». È il caso della Gagauzia, regione autonoma moldava, abitata da turchi, ma cristiani ortodossi fedeli a Mosca. «È indubbio che in certi Stati dell’Europa orientale ci sia una sensibilità diversa per il Cremlino» riflette Ferrari. «Ma solo un prolungato shock economico nella Ue, dettato dal costo dell’energia, potrebbe imporre cambiamenti sulle sanzioni e la guerra in Ucraina. Sempre che che le forze russe riescano a tenere i territori conquistati in Ucraina».

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